Psicologia del fondamentalismo: così funziona la propaganda dell’ISIS

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L’appeal dell’ISIS ha davvero poco a che fare con la teologia per quanto riguarda il reclutamento di combattenti, siano questi arabi o provenienti da realtà geografiche tradizionalmente non musulmane; è quindi veritiero asserire che la questione di cui stiamo trattando ha una componente psicologica che riveste, a tutti gli effetti, il ruolo di variabile dominante.

E’ per questo motivo che è necessario mettere in dubbio un presupposto che in questa teorizzazione risulterebbe parzialmente o totalmente errato, ovvero  il fatto che la battaglia che spinge alcune persone a rischiare la vita o l’incolumità fisica è costituita dal mero senso di appartenenza o dall’adesione a qualsivoglia credo religioso.

In una prospettiva psicologica, infatti, il fascino che può esercitare un estremismo religioso violento trae origine da uno sfruttamento intelligente di due bisogni umani fondamentali: la necessità di “finitezza cognitiva” parimenti a quella di “significato personale”, in una visione allargata rispetto all’autoaffermazione che è la spinta motivazionale primaria.

La necessità di chiusura equivale alla ricerca della certezza e all’esclusione dell’ambiguità; rappresenta, in buona sostanza, il desiderio di sentirsi sicuri per il futuro, per sapere cosa fare e dove andare.

E’ la ricerca di strutturazione e coerenza nella propria prospettiva di credenze (Kruglanski, 1989; 2004).

La necessità di certezze costituisce, però, una comune esperienza umana; molti di noi potrebbero infatti desiderare questa sicurezza durante l’attesa per i risultati di un test, o durante le indagini per la risoluzione di un giallo, ad esempio, ma alcune persone sperimentano il bisogno di sicurezza cronicamente, per la maggior parte del tempo, ed è qui che una comune caratteristica inizia ad assumere un’entità tale da divenire di rilevanza clinica.

Inoltre, va detto che alcuni contesti inducono e implementano la necessità di ricerca di certezze nella maggior parte delle persone (Kruglanski Webster, 1996) e il momento storico attuale può ragionevolmente rappresentare un tale contesto.

Ondate di immigrazione senza precedenti hanno dislocato milioni di persone di culture differenti e hanno in qualche modo acuito un fenomeno che già Samuel Huntington aveva definito come “scontro di civiltà” (Huntington, 1993).

La recessione economica ha lasciato milioni di giovani uomini e donne disoccupati, le istituzioni politiche sembrano sgretolarsi e diverse sedi mondiali sono scosse da una forte instabilità interna.

Tutto questo genera inquietudine, le incertezze inducono ansia e l’ansia a sua volta implementa l’irrealistica necessità di un’immediata certezza in cui credere e buttarsi anima e corpo.

Le ideologie fondamentaliste sono la quintessenza di ciò che serve per soddisfare questo spasmodico bisogno di certezze; lo fanno dipingendo una visione del mondo caratterizzata da dicotomie taglienti e scelte chiare, un mondo di bene contro il male, di santi contro peccatori, ordine contro il caos; un universo puro in bianco e nero che non ammette sfumature di grigio.

Un’ideologia fondamentalista stabilisce chiare contingenze tra azioni e conseguenze, offre un futuro prevedibile e controllabile e una tale prospettiva riveste un fascino irresistibile soprattutto per i giovani confusi nelle fasi di transizione della loro vita, quando si trovano alla deriva come navi senza timone, talvolta lacerati dai conflitti interiori e dalle esigenze culturali.

Nell’ambito di numerose ricerche promosse dalla National Science Foundation e dal Dipartimento della Difesa americana sono state individuate, di volta in volta, le relazioni statistiche significative tra “Need for Closure”, ovvero il bisogno di certezza misurabile in scala clinica (NFC) e l’estremismo. (Kruglanski, Chen, Dechesne, Fishman e Orehek, 2009; Kruglanski, Belanger, Gelfand, Gunaratna, Hetiarrachchi, Orehek, Sasota Sharvit, 2013; Orehek, Sasota, Kruglanski, Deschesne Ridgeway, in corso di stampa).

Questo dato è stato individuato indipendentemente dal contesto geografico indagato (Marocco, Spagna, Filippine, Irlanda del Nord, Sri Lanka) e anche se l’estremismo si esprimeva in modo diverso in luoghi differenti (ad esempio, attraverso il fondamentalismo religioso o l’etno-nazionalismo radicale), la sua relazione con il bisogno di sicurezza (NFC) era stata la stessa: Gli individui che maggiormente necessitavano di “risposte certe” mostravano anche comportamenti e punti di vista estremi come quello di ghettizzare e isolare chi non condivideva le loro opinioni ritraendo questo come un comportamento spregevole, si  sentivano, inoltre, moralmente autorizzati a distruggerli con qualsiasi mezzo.

Al di là della certezza e della coerenza, ovviamente intese in senso lato, l’ideologia ISIS offre ai suoi seguaci una ricompensa psicologica inestimabile, un premio che non ha eguali, ovvero la sensazione che attraverso la lotta contro gli infedeli si possa guadagnare lo status di eroi e martiri, assumendo così un significato personale più grande della vita stessa, tanto da permettere di guadagnarsi un posto nella storia.

Richard Barrett, un ex ufficiale dei servizi segreti americani, ha osservato che gli occidentali tendono a diventare jihadisti perché “le persone sono alla ricerca di uno scopo più grande e un significato nella loro vita”.

Tale ricerca di scopo e di significato individuale è, tra le altre, una motivazione umana preminente, da tempo riconosciuta da teorici del calibro di Maslow (1943).

Ciò denota, pertanto, la suprema importanza per l’uomo di essere notato, considerato e ritenuto meritevole di stima e privilegi.

La ricerca di un significato individuale, inoltre,  può essere infiammata da quella che si può considerare una perdita notevole, ed è questo quello che i comunicatori estremisti raffigurano: l’umiliazione dei musulmani da parte dell’Occidente, le loro sofferenze in Iraq, Afghanistan, Palestina o Bosnia. Tutto ciò è descritto in colori vivaci per evidenziare l’affronto e il disonore che i popoli islamici di tutto il mondo starebbero affrontando.

Questo tema è uno dei pilastri della propaganda fondamentalista; Yehia Al Libi, terrorista di spicco nell’organizzazione di Al Qaeda, ha convocato infatti i musulmani ad agire in nord Africa con queste parole di fuoco: “La Jihad in Algeria, oggi, è la vostra speranza con il permesso di Allah per la redenzione dall’inferno dei regimi ingiusti al potere che congestiona le carceri con i vostri bambini e le vostre donne” e ancora “L’America e i suoi alleati sono rimasti a guardare la situazione dei musulmani nelle mani del nusayriyyah. Hanno guardato con gioia l’uccisione, l’abuso, l’espulsione e la distruzione, non si sono né interessati né preoccupati per le centinaia di migliaia di morti, feriti, prigionieri e per i milioni di sfollati musulmani, compresi  donne e bambini, che in tutto il mondo sono nelle mani degli infedeli “.

Un aspetto che è abbondantemente considerato da psicologi sociali e politologi che si occupano di fenomeni terroristici legati alla religione è certamente quello relativo all’esperienza di disonore e umiliazione; molti studiosi in ambito forense, con i loro lavori, hanno parallelamente enfatizzato la connessione tra l’esperienza umiliante, il sentimento conseguente di vergogna e l’incremento della violenza (nei soggetti di sesso maschile). (Gilligan, 1996).

Questo per dire che i sentimenti di umiliazione propri della popolazione araba sono stati tra i più frequentemente citati come cause scatenanti del fondamentalismo islamico (Habi-Hashem, 2004; Davis, 2003).

Giovani frustrati senza uno scopo coerente, con prospettive incerte, ghettizzati e spesso isolati, sembrano particolarmente inclini ad interessarsi all’estremismo in nome di Allah e dei musulmani come gruppo etnico privato di uno status e di una rilevanza sociale, così Barrett suggerisce che gli jihadisti tendono ad essere “scontenti, senza meta e privi di un senso di identità e appartenenza.”

Ma non sono solo loro, a quanto pare, che trovano attraente il messaggio dell’ISIS; l’appello al senso di identità calpestato e la rappresentazione del degrado di un  gruppo, può infatti attrarre anche individui che potrebbero altrimenti essere visti come ben inseriti e con un futuro promettente.

Non c’è dubbio che la strategia di reclutamento dell’ISIS sia stata fino ad ora sorprendentemente efficace; pochi mesi fa il numero dei suoi combattenti è stato stimato in circa 10.000 unità, ma un aggiornamento di settembre della CIA ne contava già 31.500; 12.000 di questi sarebbero combattenti “stranieri” e circa 3.000 occidentali.

Dal punto di vista psicologico, l’allure dell’ISIS in gran parte si trova nel rimedio rapido che offre alla sensazione di perdita di importanza e nella via sicura che offre per il guadagno del significato individuale.

I presupposti si basano sull’appeal di pulsioni primordiali, sesso e violenza.

La ricerca del proprio “posto nel mondo” è universale; noi tutti possediamo in misura sostanziale un bisogno di auto affermazione e non c’è nulla di “sbagliato” in questo, al contrario, può generare attività pro-sociali nobili, attestate da opere di grandi filantropi come Madre Teresa, Martin Luther King, Nelson Mandela, o Mahatma Ghandi.

Ma il lavoro disinteressato a favore dell’umanità può essere arduo e ingrato, richiede pazienza e tenacia, una lotta contro forze schiaccianti, spesso ci vogliono anni per la realizzazione, con poco incoraggiamento e poca garanzia di successo. E ‘una pista lenta che richiede pazienza e tenacia.

Una modalità molto più veloce, al contrario, passa attraverso la violenza e il combattimento ed è così da tempi immemorabili, è ciò che motivava i giovani nel medioevo durante le Crociate, ha ispirato Lord Byron ad unirsi alla lotta dei greci per l’indipendenza, ha allettato volontari nella guerra civile spagnola, ha agitato i Mujahadeen in Afghanistan ed è attualmente ciò che galvanizza migliaia di combattenti stranieri rispetto all’ISIS in Siria e in Iraq.

Anche se esistono altre vie per l’affermazione individuale, la violenza ha un istintivo richiamo alla logica evolutiva; è infatti proprio attraverso il dominio aggressivo che gli animali in tutto lo spettro filogenetico, dal gamberetto all’essere umano, affermano la loro posizione.

E’ così che i bambini costruiscono le loro gerarchie sociali ed è così che gli Stati hanno stabilito la loro posizione nell’ordine internazionale (Duntley Shackelford, 2008).

La chiamata dell’ISIS alle armi per il nobile riconoscimento di un Califfato può quindi, attraverso la violenza, avere una risonanza irresistibile per alcuni.

Un altro aspetto della strategia dell’ISIS che non è affatto insignificante è l’uso intelligente del sesso come forma di ricompensa per l’aggressione, cosa che, parimenti alla violenza, ha origini primordiali; nel regno animale, infatti, i maschi spesso hanno accesso alle femmine attraverso il loro dominio aggressivo sui rivali (Duntley Buss, 2011).

L’accesso sessuale, inoltre, è l’affermazione più primitiva del proprio Sé e della propria continuità genetica nel futuro (Buss Kenrick, 1998).

L’ ISIS ha trasformato l’uso strategico del sesso in una macchina ben oliata che offre a giovani uomini, spesso frustrati, la promessa dello Shangri La per il loro coraggio: ci sono giovani spose desiderose di unirsi in matrimonio con i combattenti, lo stupro dei non credenti è legittimato, e le fatwa sono emesse proclamando una “jihad sessuale” mediante cui le ragazze che non scelgono spontaneamente vengono letteralmente costrette a sposare i militanti.

Ci sono state segnalazioni di centri di matrimonio in fase di realizzazione in cui le donne venivano registrate per essere offerte ai combattenti, mentre molte tra le irachene catturate sono state ridotte in schiavitù sessuale in bordelli gestiti da jihadiste di sesso femminile.

Inoltre l’ISIS promette ai miliziani che muoiono in battaglia o in un attentato suicida lo status di martiri (shahid) e per questi sarebbe garantito un premio finale che consisterebbe nell’avere in spose belle vergini all’ingresso in Paradiso.

Anche se alcuni possono facilmente e comprensibilmente individuare e riconoscere le “strategie” sessuali dell’ISIS come uno sfruttamento terribile e cinico delle donne, non tutte le donne riescono a vedere la realtà in questo modo.

Secondo The Guardian, infatti, molte giovani ragazze trovano appeal nella prospettiva di un matrimonio con qualcuno che “percepiscono” essere un eroe e scelgono questo per crescere dei bambini che saranno i combattenti futuri per la gloria dell’Islam.

Proprio come le loro controparti maschili, le femmine sperimentano la stanchezza e il vuoto di un’esistenza poco brillante e vedono quindi in questi matrimoni una possibilità vantaggiosa; anche loro possono essere interessate a mettere in atto il ruolo “glamour” che l’ISIS offre e possono, con entusiasmo, abbracciare la prospettiva di servire una causa di enorme importanza, infinitamente più grande di loro.

Nel suo importante studio “Il disagio della civiltà”, Sigmund Freud ha descritto come le culture, attraverso la costruzione di sistemi morali, sono in grado di frenare gli impulsi primitivi di aggressione e di sesso, permettendo così alle società di funzionare e di prosperare (Freud, 1930); per santificare questi istinti primordiali, al contrario, la propaganda ISIS, in un tour de force intrigante, trasmuta il profano nel sacro scatenando enormi forze motivazionali per trasformare gli assassini in martiri sia ai loro stessi occhi, sia  agli occhi di chi li guarda.

Alla luce di tutto questo se ne deduce che il fenomeno terroristico ISIS fa leva tanto sugli aspetti militari, quanto su quelli psicologici: La crudeltà, la severità e un progetto di dominio che si allarga oltre i confini della vita stessa danno un senso di potere, raffigurano un “cavallo forte”, per utilizzare una nota metafora di Osama Bin Laden, che offre gloria e affermazione per tutti coloro che scommettono sulla sua vittoria.

E in una “guerra di teologie”, quello che offre coerenza e certezze, promette un significato supremo, e premia i suoi seguaci con il sesso, è probabilmente vincente.

La sfida, quindi, è quella di comprendere la magia della proposta dell’ISIS e utilizzarla con saggezza nella creazione di una contro-narrazione psicologicamente efficace.

Gli appelli alla moderazione, alla tolleranza e alla convivenza pacifica potrebbero non essere convincenti per i giovani confusi e desiderosi di farsi notare, piuttosto, la lotta contro l’estremismo ha bisogno di sfruttare le stesse forze psicologiche che hanno reso l’estremismo attraente.

Se la semplicità e la certezza sono ciò che l’ISIS ha utilizzato nella propaganda, la contro-narrazione deve essere altrettanto semplice e priva di ambiguità; se la promessa di gloria e di affermazione costituiscono la motivazione che abbiamo analizzato, la contro-narrazione deve offrire parallelamente le stesse ricompense, anche se in un’altra forma.

Giovani uomini e donne potrebbero essere chiamati a mobilitarsi per difendere l’onore della loro religione, potrebbero essere incoraggiati a esprimere il loro disgusto circa le aggressioni brutali ed essere invitati a prevedere un impegno collettivo con un diverso scopo, ma attraverso una storia ugualmente appassionante.

La nuova narrativa dovrebbe essere presentata con coraggio e assertività; dovrebbe essere formulata utilizzando modelli carismatici che ispirano e sviluppano il comportamento pro-sociale. La “cognizione fredda” e le solide argomentazioni non sono sufficienti.

La risposta militare all’ISIS che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno intrapreso è inevitabile: psicologicamente, la vittoria sul nemico dovrebbe servire a distruggere l’ immagine di invincibilità e a rivelare che l’adesione può condurre all’ignominia, ad una morte solitaria e ingloriosa nel deserto, ma molto di più deve essere fatto a livello interpretativo e per ciò che concerne la comunicazione pubblica al fine di assicurarsi che il messaggio prevalente non è e non può essere quello dell’ISIS.

Capire la psicologia di tutto questo è indispensabile in questa impresa.

 

Flaminia Bolzan Mariotti Posocco (Psicologa, Criminologa)

 

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