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  La forza d’animo che guarisce. La chiamano resilienza

  È quella capacità di non farsi piegare dalla malattia attingendo a una riserva interiore di coraggio e positività

  Resilienza

  Più forti di prima dopo la malattia

  Una «riserva interiore» consente una nuova vita. Migliore

  Corriere della Sera/Salute, 17.06.2012

Il filosofo Epitteto; i 700 neonati hawaiani dell’isola di Kauai, classe 1955; i 100 bambini curati nell’Oncoematologia pediatrica dell’ospedale San Gerardo di Monza, che hanno scritto in un libro la storia della loro vittoria sulla leucemia: c’è un filo rosso che li lega. Si chiama resilienza. Un concetto che nasce dalla fisica e indica la capacità di un materiale di resistere a deformazioni e urti senza spezzarsi, anzi tornando alla sua forma iniziale.

Col tempo, la parola ha ampliato il suo campo di applicazione e sta vivendo un grande successo internazionale. Così si parla anche di resilienza tessile, cioè la capacità dei tessuti di riprendere la loro forma originaria. C’è la resilienza ecologica e quella biologica, ovvero la capacità di ecosistemi e organismi di ripristinare le proprie condizioni di equilibrio dopo un intervento esterno. C’è una resilienza informatica e persino una resilienza geriatrica. Ma soprattutto la resilienza è oggetto di studio della psicologia che, sul fronte clinico, l’ha declinata come capacità del malato di assorbire un «urto» come la malattia, senza però «frantumarsi» ma addirittura migliorando.

La psicologa Anna Oliverio Ferraris la definisce «forza d’animo» e spiega come sia il filosofo greco Epitteto sia l’imperatore filosofo romano Marco Aurelio, esponenti dello stoicismo, «insistono sul ruolo salvifico della forza interiore, di quella preziosa risorsa che ognuno deve cercare in se stesso e coltivare lungo tutto l’arco della propria vita».

È questa la resilienza? Cerchiamo di capirlo meglio attraverso un altro elemento del nostro fil rouge allora, partendo dai ragazzi guariti di Monza. «I nostri ragazzi ci hanno insegnato che la crescita positiva dopo il trauma della malattia esiste veramente - spiega Giuseppe Masera, pioniere dell’approccio psicologico nel campo dell’ematologia infantile e a lungo direttore della Clinica pediatrica del San Gerardo di Monza -: per loro è stato come rinascere una seconda volta. Lo trovo affascinante. I pazienti ci dicono che la malattia ha insegnato loro a dare un valore diverso alle cose e all’esperienza della vita».

Per questo Masera, con il grande oncologo di Philadelphia Giulio D’Angio, lancerà una proposta su una rivista scientifica internazionale: «Dobbiamo sensibilizzare gli oncologi a conoscere e promuovere un nuovo paradigma: dalla terapia globale e dalla prevenzione dei danni anche psicologici, alla promozione della crescita positiva. È poi necessario considerare la ricerca su questo tema: conoscere da un lato quali sono le caratteristiche individuali, dall’altro gli interventi più opportuni - a partire dalla diagnosi, durante la terapia, e negli anni successivi - che possano favorire la resilienza».

Il punto di partenza e anche la sfida sta proprio qui. Possiamo imparare qualcosa da chi riesce a riprendere un nuovo sviluppo di buona qualità dopo un trauma, come sostiene lo psichiatra Michael Rutter, «padre» della psicologia infantile? E riprendendo un pensiero di Boris Cyrulnik (etologo e psicologo francese, tra i massimi studiosi di resilienza), «in quali condizioni interne ed esterne queste riprese di nuovo sviluppo sono possibili»? Se lo sono chiesti gli esperti riuniti lo scorso fine settimana a Parigi per il primo Congresso mondiale sulla resilienza.

«Si tratta di una questione molto affascinante, ma parecchio complessa. La resilienza è un processo, multidimensionale e multifattoriale» sottolinea Elena Malaguti, una delle prime studiose che ha introdotto in Italia le ricerche sulla resilienza e docente di Pedagogia speciale all’Università di Bologna, componente dell’Osservatorio internazionale sulla Resilienza di Parigi, presieduto dallo stesso Cyrulnik con il quale lavora da dieci anni.

«La resilienza nasce dalle ricerche della psicologa Emmy Werner che per prima fece uno studio longitudinale alle Hawaii» racconta Elena Malaguti. Emmy Werner esaminò 698 neonati, l’intera leva del 1955, nell’arco di 40 anni. Il risultato più significativo fu che, a dispetto dell’esposizione a fattori di rischio legati alla nascita o all’ambiente, circa un terzo dei bambini considerati ad alto rischio erano diventati adulti premurosi, competenti e affidabili.

In condizioni normali, ognuno è solo potenzialmente resiliente: «All’interno delle definizione di resilienza - spiega Antonella Delle Fave, docente di Psicologia all’Università Statale di Milano-Ospedale Sacco - è implicito il fatto che ci sia una cosiddetta "condizione estenuante o estrema" di grave pressione per cui allora si manifesta la resilienza. Ci sono cioè delle risorse che possono essere utilizzate nel momento della necessità e che si traducono in resilienza. Se però viene a mancare questa situazione estrema, non possiamo più identificare tali risorse come strumentali alla resilienza».

Resilienza come forza di reazione e di adattamento dunque. Innata, forse, o raggiungibile? «Non credo esista il gene della resilienza - riflette Elena Malaguti -. In generale, sarebbe opportuno parlare di "resilienza naturale" e di "resilienza assistita", ovvero degli indicatori, dei progetti e dei percorsi che possono essere intenzionalmente avviati ad esempio da genitori, educatori, soccorritori, infermieri, insegnanti. In presenza di un evento traumatico è opportuno individuare le strategie di coping, cioè la capacità di far fronte a un evento; i processi di empowerment, ovvero l’accrescimento e l’acquisizione di competenze, e il processo di resilienza, vale a dire la ripresa evolutiva. È come se fosse una scala». In fondo, assicurano gli esperti, basta imparare a salirci.

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