Psicologia… on the stage

Sapete chi è Ellie Parker? Meno famosa di Bridget Jones ma sfigata almeno quanto lei, se quest’ultima è uno spassoso romanzo inglese da cui è stata tratta la celebre pellicola omonima, la prima è una più sottilmente spassosa commedia americana che ha per protagonista non già una problematica sentimentale, bensì una problematica aspirante attrice. E del tipo peggiore: quella che ci crede, che studia, che si trasforma con stanislavskijana cocciutaggine, che fa i provini, e che nonostante tutto ciò non arriva neanche a sfiorarla la soglia dell’Olimpo delle stars.

Ho rivisto questo film di recente, sorridendo di ogni tipico segno maniacale di quest’arte che si svela sempre più fragile quanto più è potente la capacità camaleontica che ci si aspetta da essa. Così mi sono ricordata di aver lasciato in sospeso la promessa di un’intervista a una psicoterapeuta esperta in teatro terapia – la dottoressa Gabriella Tambone – che si è però mostrata disponibile a un nuovo incontro.

– La prima volta che ho recitato davanti a un pubblico avevo tredici anni, – mi confida solare, con la serenità delle persone pienamente appagate dall’oggi, rappacificate con i tumulti di un acerbo passato ormai alle spalle – facevo la mamma ne Il padre della sposa (di Caroline Francke, da cui la famosa versione hollywoodiana di Vincente Minnelli con Spenser Tracy e Liz Taylor, ndr). In seguito, alle superiori gli ultimi tre anni presi parte alla Filodrammatica della scuola, e da lì in poi seguii vari corsi e portai avanti di pari passo gli studi di psicologia, perché l’aspetto che mi interessava di più del lavoro dell’attore non era né la possibilità di interpretare caratteri anche molto diversi dal mio, né quell’oretta di divismo che si prova stando sotto i riflettori, bensì lo scambio reciproco tra l’attore e il personaggio. Ovviamente mi sono dovuta scontrare con una realtà ben diversa: quando sei lì devi occuparti di tante di quelle altre cose (la memoria, prendere la luce, portare la voce, fare le pause ad arte per far scattare l’applauso) che questo aspetto più profondo passa in secondo piano.

– Un’attrice consapevole, quindi, a dispetto dei registi che preferirebbero lavorare con interpreti ignoranti, nel senso più puro del termine, per poterli plasmare a piacimento.

– Probabilmente perché il mio vero obiettivo era quello di fare la psicologa. Le racconto un episodio: facevo una comparsata in una fiction televisiva, avevo una sola battuta ma mi resi conto che c’era un’incongruenza con ciò che era appena accaduto nella scena. Lo dissi al regista e quello, guardandomi con sufficienza, urlò ai tecnici disse: “Ma guarda un po’ chi ci doveva capitare oggi! Un’attrice pensante!”.

– E così è arrivata alla teatroterapia…

– No. Prima sono passata per lo psicodramma.

Non posso fare a meno di ripensare a Ellie Parker, in special modo alla scena in cui lei è a casa di un guru della recitazione intenta a seguire con altri allievi una sorta di workshop sull’interpretazione vera; il maestro tanto osannato nonché pagato profumatamente per dispensare le sue pillole di saggezza chiede il permesso di allontanarsi un momento e lei, poco dopo, scopre che era andato a farsi una striscia di coca.

– A partire dalla tesi di laurea, che incentrai sull’uso dello psicodramma nella formazione (aziendale, ospedaliera, d’équipe, scolastica) piuttosto che da un punto di vista terapeutico, ebbi modo di maturare varie esperienze in tal senso, ma più andavo avanti, più sentivo che non era esattamente ciò che cercavo.

– A scanso di equivoci, possiamo riassumere brevemente in cosa consiste lo psicodramma?

– È una tecnica di terapia individuale in gruppo condotta da uno psicoterapeuta o da uno psicanalista, in cui si utilizzano tecniche strettamente teatrali. Dalla fase iniziale di riscaldamento emerge un protagonista: l’individuo che ha bisogno di lavorare su di sé e che esternerà tale bisogno  a parole o attraverso il pianto, l’isolamento ecc. Tutta la sessione psicodrammatica che ne deriva consisterà nella rappresentazione con gli altri (Io-Ausiliari) di un evento, un sogno, un ricordo, una fantasia che il protagonista sceglierà con l’aiuto del conduttore, e dove ognuno svolgerà il ruolo che il protagonista, che potrà anche fare da regista, vorrà assegnare loro (non si segue un canovaccio, non ci sono battute scritte). Rimanendone fuori, osservando la scena nella sua tridimensionalità, egli comincerà già ad avvertire una specie di catarsi. La scena verrà quindi ripetuta e ogni volta il conduttore potrà suggerire altre possibilità. Ciò, ovviamente, non riuscirà a cambiare il passato del protagonista, ma servirà a modificare qualcosa nel suo modo di affrontare il problema quando esso si ripresenterà nella realtà (ridefinizione).

Facendo riferimento al caso esasperato di Ellie Parker, chiedo alla dottoressa se ci può essere un interesse formativo da parte di un attore a seguire sessioni di psicodramma.

– Concesso che ognuno di noi ha qualcosa di irrisolto nel proprio intimo, bisogna tenere a mente che lo psicodramma non è un laboratorio di recitazione; diffidate dei conduttori che sono dei semplici attori, perché per svolgere questo lavoro sono richieste competenze di psicoterapia o di psicanalisi (nel caso della teatroterapia il conduttore deve aver fatto almeno una scuola che lo formi sull’uso di tecniche teatrali a fini terapeutici e non artistici), altrimenti si rischia di creare danni anche molto seri, perché un teatrante sarà sempre e comunque interessato alle potenzialità performative di chi ha davanti, quindi cercherà di smuovere tensioni e drammi sopiti con l’unica finalità di plasmare un interprete convincente, ma una volta ottenuto uno svisceramento totale, non sarà in grado di indicargli la strada della consapevolezza e della risoluzione di problemi che da quel momento non appartengono più a un attore, ma a un individuo disagiato.

– In cosa si differenzia, quindi, lo psicodramma dalla teatroterapia?

– Se lo psicodramma è una terapia individuale in gruppo, la teatroterapia è una terapia di gruppo, perché non emerge una sola persona sugli altri, anzi: molte azioni sono legate proprio alla cooperazione. Nella t. il linguaggio teatrale non viene utilizzato per analizzare le persone (di fatto nessuno porta un evento traumatico personale) ma per aiutarle a tornare a una condizione leggera, spontanea, dove non si temono giudizi quindi si è più disponibili alla creatività, come avviene durante l’infanzia. Il conduttore porta il gruppo a costruire insieme una storia, per esempio un’improvvisazione (sono dentro casa, vivo con la mia amica ma stasera ho bisogno di casa libera…) in cui, aldilà del vissuto personale, venga fuori spontaneamente il carattere di ognuno e, di conseguenza, si abbiano spunti per lavorare insieme sulla gestione dell’ansia, sul superamento di possibili blocchi ecc.

– Chi sceglie di fare un percorso di t.?

– Sia chi è normodotato (adulti e/o bambini che non hanno problemi particolari ma che magari vogliono solo cercare di entrare meglio in contatto con le proprie risorse, oppure che vogliono superare dei blocchi emotivi) che chi non lo è (down, non vedenti, malati psichiatrici). A seconda delle utenze variano le tecniche utilizzate. L’importante è far sentire tutti adeguati, non inibire, non giudicare, perché ognuno ha in sé le risorse per trovare delle soluzioni.

– C’è qualche patologia per cui la t. non è indicata?

– In realtà no, basta aggiustare il tiro, individuare l’obiettivo e tarare di volta in volta gli esercizi proposti e le performance.

– Il fine ultimo è la guarigione o il miglioramento?

– Un miglioramento, una maggiore conoscenza di sé e dei propri limiti ma anche delle risorse che spesso nascondiamo o non pensiamo di avere, quindi un accrescimento della propria autostima.

So che la dottoressa Tambone ha già iniziato una serie di workshop di t. che svolge una volta al mese (“Il sé sul palcoscenico. Presentazione di sé: come mi presento io, come mi vedono gli altri”; “La favola”; “Il teatro del sogno”; “Il lavoro sugli archetipi”, “Il clown dentro di noi”, “Dalla maschera neutra alla maschera espressiva”). Le avevo già chiesto, tempo addietro, il permesso di infiltrarmi in uno di questi incontri per testimoniare personalmente queste realtà, e lei mi rispose che non era deontologicamente corretto, così ora le chiedo di illustrarmi come si svolgono.

– A una prima fase di riscaldamento (giochi di conoscenza ecc.) segue l’introduzione del tema (ad esempio la favola); improvvisazioni sul tema (il modo di camminare di specifiche figure come il lupo in Cappuccetto rosso); microimprovvisazioni corali (metà gruppo fa il lupo, l’altra metà fa Cappuccetto); lavori in gruppo (quattro sottogruppi scelgono ognuno una favola o una parodia della stessa, stilano un canovaccio, si dividono i ruoli e preparano le quattro performance); rappresentazioni. Nella seconda parte, il conduttore mostra degli oggetti che ha portato (piccoli accessori e costumi) per provocare nei partecipanti delle suggestioni. Ognuno ne sceglie uno per sé e sceglie anche i propri compagni di lavoro. Si formano così altri quattro gruppi (non è raro trovare elementi, quindi personaggi, appartenenti a favole diverse) e di nuovo ognuno lavora separatamente per costruire la performance, solo che questa volta la favola viene inventata di sana pianta. Infine c’è uno scambio di riflessioni su cosa ognuno ha scoperto.

– Non essendo degli attori, capita mai che qualcuno si interrompa?

– Mai. Prima che inizino chiedo loro di andare avanti qualunque cosa succeda, di cercare di superare un eventuale ostacolo per il bene della messa in scena. E così accade. La performance è come la vita: non ci si può fermare.

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