L’omosessualità secondo la psicologia

Per affrontare il tema dell’omosessualità secondo la psicologia, mi sono fatta aiutare da un’addetta ai lavori, una mia amica psicologa: Serena Vitulo. Ho posto a lei alcune domande e curiosità banali, ma che, secondo me, un ragazzo/a giovane potrebbe porsi sull’argomento, e che fanno un po’ di chiarezza.

Qual è la posizione della psicologia nei confronti dell’omosessualità, adesso nel 2013?
Quello dell’omosessualità è sempre stato un argomento complesso e dibattuto, che ha condotto alla ricerca di configurazioni esplicative spesso sconfinanti nella patologizzazione. Negli ultimi anni si è reso sempre più chiaro quanto sia difficile attuare delle separazioni nette tra la teorizzazione scientifica e gli scenari culturali e politici entro i quali essa prende le mosse. Solo a seguito di tale presa di coscienza e grazie a numerosi esempi di revisione critica, è stato possibile un approccio all’omosessualità non gravato da pregiudizio. Da circa quindici anni la comunità psicoanalitica è attraversata da una serie di revisioni teoriche che hanno messo in discussione i modelli teorici ed esplicativi sull’omosessualità dominanti per lunghi anni il pensiero psicoanalitico comune.

Quindi spieghiamolo chiaramente: non esistono correlazioni fra omosessualità e disturbo mentale.
Nel 2000 l’APA (American Psychological Association), tramite la produzione di un documento ufficiale, disconosce qualsiasi genere di trattamento che parta dall’assunto che l’omosessualità sia un disturbo mentale. Oggi la comunità scientifica afferma, quindi, che l’orientamento sessuale non dice nulla della salute mentale, della capacità di relazione, della struttura morale di un individuo e la quasi totalità degli psicoterapeuti oggi riconosce una concezione non patologizzante dell’affettività e della sessualità gay, considerate come declinazioni altrettanto sane del desiderio amoroso.

È fondamentale, tuttavia, tener conto del peso del contesto culturale sullo sviluppo psicologico delle persone omosessuali, in quanto l’interiorizzazione della propria diversità incide sulla vita degli individui.

La condizione omosessuale è infatti differente da quella di altre minoranze sociali (etniche, ideologiche, religiose) poiché ha a che fare con la gestione di un senso di negatività e indesiderabilità di cui le persone omosessuali si sentono portatrici anche in seno alle proprie fondamentali appartenenze e l’invisibilità che ancora oggi contraddistingue una percentuale di esse ha molte ripercussioni sul benessere e sulla qualità della vita poiché genera isolamento, limita la possibilità di instaurare legami significativi e di trovare sostegno, mina l’autostima e la sicurezza personale.

Quindi in primis è l’indifferenza che va sempre e comunque combattuta?
D’altro canto, anche gli approcci tendenti alla “normalizzazione” dell’omosessualità (“in fondo sono come chiunque altro”, ecc.) non fanno altro che banalizzare, generare indifferenza e impossibilità di creare un terreno di scambio e di confronto.

Chi si occupa a vario titolo della salute e della cura delle persone dovrebbe essere a conoscenza dell’esistenza di tematiche specifiche e rilevanti nella vita dei gay: esperienze evolutive particolari e relative alla presa di coscienza del proprio orientamento sessuale, coming out, effetti di atteggiamenti eterosessisti o antiomosessuali, omofobia interiorizzata, ecc.

Per un approccio corretto e rispettoso è necessario quindi che chi è deputato ad accogliere richieste di sostegno da parte di persone omosessuali crei uno spazio di sicurezza ed accettazione in cui l’individuo possa sentirsi libero di affrontare questioni e problematiche relative alla propria esperienza di vita, esplorando e disconfermando eventuali credenze patogene relative al proprio orientamento sessuale, ossia pensieri e sentimenti riconducibili a ciò che viene comunemente chiamato” omofobia interiorizzata”.

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