La psicologia del fumatore – You

LaFineSigaretteFin dal primo giorno, fin dal primo istante, fin dalla prima volta in cui pronunci quel famigerato: “Buongiorno! E’ qui per acquistare le sue sigarette?” Frase che ti si appiccica addosso, fino a diventare il tuo inseparabile biglietto da visita, capisci che disponi di un arco temporale assai labile per comprendere umore, carattere, forma mentis, così come le molteplici altre variabili che concorrono a determinare il peculiare ed unico modo di interagire con il mondo del quale si avvale il tuo interlocutore e per riuscirci devi aggrapparti a qualsivoglia elemento utile a consentirti di carpire, in maniera celere e repentina, il mix di emozioni e percezioni che ne determinano la facoltà di recepire gli stimoli e la conseguente capacità di elaborare una risposta, unilaterale, personale e soggettiva ed, in quanto tale, imprevedibile.

Mi importa capirlo, perché in quelle fugaci frazioni di secondo, “il mondo” con il quale quell’individuo è chiamato ad interagire è rappresentato dalla mia umile e modesta persona.

Mi appare ben chiaro, fin da subito, che per riuscire ad adempiere brillantemente al mio ruolo di “hostess di tabaccheria”, mi tocca capire chi ho davanti e capirlo pure in fretta.

Uno sguardo, il tono di voce, un gesto, la mimica espressiva e facciale, tutto quello che concerne ed attiene la sfera del linguaggio verbale, non verbale e paraverbale, risulta preziosamente efficace in quelle frazioni di secondo, in cui le circostanze mi impongono di tramutarmi in “psicologa di tabaccheria”.

La mente umana è complessa ed imprevedibile.

L’ho imparato a mie spese, collezionando ed incassando, con il sorriso sulle labbra, frasi sprezzanti cinico dissenso, non per la mia persona, ma per quello che, in quella sede, la mia figura rappresenta.

La mente di un fumatore è assai più complessa ed imprevedibile rispetto a quella di qualsivoglia essere umano riconducibile ad altre categorie d’appartenenza.

Anche questo l’ho imparato a mie spese, interagendo con milioni di fumatori, differenti per età, provenienza, sesso, stile di vita, ideologie, valori, principi, ceto sociale, ma tutti, indistintamente, accomunati dalla medesima debolezza: il fumo.

Maturare la consapevolezza di dipendere da un’entità priva di corpo ed anima come il fumo, richiede la presa di coscienza necessaria per asserire di non disporre della forza di volontà e della determinazioni utili per prevalere su quell’insidiosa prostrazione.

Pertanto, ogni volta che valica la soglia di una tabaccheria, nel fumatore regna la cognizione di essere uscito sconfitto, per l’ennesima volta, dall’eterno braccio di ferro tra volere e potere.

Per cui, per la maggior parte di loro, la hostess di tabaccheria” funge da severo specchio nel quale, quei fumatori, vedono brutalmente proiettate le loro umane e fragili vulnerabilità, questo tramuta me e le mie colleghe in un facile ed abbordabile bersaglio contro il quale riversare la propria indomita e frustrante desolazione mista a rabbia, quella dettata dalla razionale lucidità che focalizza e concentra le emozioni sull’incapacità di reagire ed opporsi a quella sciagurata dipendenza, ma, in realtà, è contro loro stessi che vomitano tutto il proprio sprezzante e crudo inappagamento.

Quelli sono “i fumatori più pericolosi”, perché capaci di partorire frasi ed azioni avulse dal logico ed oculato raziocinio, per il puro e semplice piacere di allontanare da se le angoscianti e vorticose sensazioni dalle quali sono sopraffatti, allorquando si ritrovano con il proprio “tallone d’Achille” scoperto ed in bella mostra.

Ma, alla fine, le sigarette, le comprano comunque.

Tuttavia, “averne dette quattro a quella sconsiderata che ha provato a fargli comprare delle sigarette”, gli consente di sentirsi in pace con la propria coscienza.

Surreale, senza dubbio, ma è esattamente quanto accade.

“Il fumatore saccente” è quello che non si accontenta di acquistare le sue sigarette e ritornare alla sua vita, stoppando qualsiasi forma di dialogo ed interazione con un categorico: “Non sono interessato”. Egli deve, a tutti i costi deve, lasciare un ricordo di se, perché, probabilmente, in maniera più o meno consapevole, desidera entrare nella “hit parade” delle persone più bizzarre che hai incontrato in giro per le tabaccherie.

Quindi, inscena uno sfiancante monologo, esasperato da domande retoriche, puntigliose e pignole oppure si avventura in un sonnacchioso ed inconcludente sermone incentrato sui rischi del fumo, abilmente intriso con stereotipati principi di etica comportamentale e morale.

Ma anche lui, prima di abbandonare la tabaccheria, acquista le sue sigarette, ignaro di imbattersi in un madornale errore, giacché vive nella vana convinzione di essere “migliore” o “diverso” rispetto agli altri fumatori.

Il signor “non sono un fumatore, smetto quando voglio” è, senza dubbio, “il più grave”, poiché non munito della lucida e morigerata consapevolezza necessaria per ammettere il proprio limite e palesarlo come “vizio”.

“Il fumatore cronico” è quello ossessionato dalla nevrotica e compulsiva combustione continuativa di tabacco ed è in grado di “bruciare” 2, 3, 4, pacchetti al giorno, perché la sigaretta è diventata un’imprescindibile parte della sua persona, anche se le ruba solo qualche tiro e la lascia poi fumare al vento, in lui vige il solenne bisogno di sapere che il suo pacchetto di sigarette è lì con lui.
Deve sentire che sono lì, toccandosi la tasca della camicia cucita sopra al petto, deve vivere accompagnato dalla certezza di non essere solo, perché con lui ci sono le sue sigarette. Non ha tempo né per dire: “Buongiorno” né per chiedersi chi sei e cosa vuoi, lui deve solo comprare un pacchetto di sigarette perché non può farne a meno.
Se “la crisi d’astinenza” non è in uno stadio già troppo avanzato, consentendogli di prestarmi almeno un brandello di attenzione, è un gioco da ragazzi piazzargli le sigarette, perché è uno dei rari casi in cui “tutto va bene, purché produca fumo!”

“Il fumatore storico” è quello, da sempre, abituato a fumare “le sue” sigarette e se ne rimane privo preferisce non fumare, piuttosto che “rovinarsi gola e stomaco con lo sgradevole sapore di altre sigarette”.
Quel fumatore è schiavo di un ancor più sottile e conflittuale dramma psicologico che lo ha portato, nel corso degli anni, a sviluppare una duplice dipendenza: per il fumo e per quel tipo di sigarette.
Quella marca, quel pacchetto, quel contenuto di nicotina.
Tant’è vero che, allorquando alla Casa Madre viene voglia di sottoporre il suddetto pacchetto ad un restyling per renderne forme e colori più moderni ed accattivanti, il fumatore storico va in crisi, perché, seppur sia comprovato che la miscela delle sigarette in esso contenute non sia andata incontro a nessuna mutazione, per lui è “diversa”, perché è venuto a mancare un tassello di quell’ingranaggio che nella labile complessità della sua psiche era perfetto così com’era.

“I fumatori pentiti” sono quelli che, in seguito a patologie gravi, gravidanze o problemi di salute, non dovrebbero fumare, ne sono consapevoli, ma non riescono a provarsi di quell’infame veleno.
Inizialmente, al cospetto dell’hostess, quasi come se si trovassero dinanzi ad un altero giudice, messo lì proprio per ammonirli severamente per quel loro indecoroso comportamento, allontanano il problema dichiarando di comprare sigarette per altri, ma, prima di andare via, dopo l’acquisto, il senso di colpa che li assale deve essere atroce, fino al punto da indurli a liberarsi brutalmente di quel fardello, confessando, di getto, tutta la verità, proprio come farebbero dinanzi al mite, clemente e fidato confessore, pronto ad accoglierne quell’accorato sfogo, per poi liberargli l’anima da quella cupa e tormentosa macchia.

Poi, ci sono i “liberi pensatori”: i fumatori giovani o comunque avvezzi a condurre un’esistenza troppo spensierata e leggera per “prendersi troppo sul serio”.
Questo li predispone al cambiamento, rendendoli finanche capaci di provare simpatia per la figura dell’hostess.

“Non mi dire che ti pagano per fare questo!?”

La sbalorditiva incredulità da loro palesata trova sensato riscontro nella realtà, in effetti.

Soprattutto se provo a contare tutti gli occhi dei miei coetanei, appartenenti alla categoria dei laureati, disoccupati, in attesa del proprio colpo di fortuna, in cui, quotidianamente, mi imbatto.

Molto spesso accade, infatti, che madri preoccupate o nonnine premurose, al cospetto della mia persona, mi chiedano informazioni sul “come si fa a diventare hostess di tabaccheria”, perché nella famiglia di ciascuno di noi esiste una sorella, una figlia o una nipote abbastanza sveglia e carina da poter svolgere egregiamente questo ruolo ed altrettanto bisognosa di lavoro per non meritarlo.

“Pensa che tu un lavoro ce l’hai”: alla luce di ciò, diventa l’antidoto utile per sedare il mal di schiena, figliastro delle 7 ore trascorse in piedi e la sofferenza dei piedi stessi, conseguenziale alla segregazione forzata alla quale sono andati incontro, al contempo, in un paio di scomodissime, ma assai femminili scarpe.

Ed è soprattutto il pensiero da ergere a scudo per schivare crudeltà, offese, frasi infelici, complimenti fuori luogo, commenti eccessivamente coloriti e per uscire incolume da quella cruenta battaglia psicologica che, ogni giorno, mi contrappone ai fumatori.

Luciana Esposito

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