2015, processo alla psicologia

L’anno finisce, ed è tempo di bilanci e di esami di coscienza. Comè andata nel 2015? Chi sono stati i buoni e i cattivi? La strega della psicologia, che ha giurisdizione su questi temi, che ci dice? Googlando “buoni” e “cattivi” e “2015” cosa esce fuori, accostando la parola “psicologia”? In italiano è saltato fuori il solito dibattito sui videogiochi violenti, non si capisce se innocui, utili o dannosi. No, non è interessante. I cattivi sono quelli che continuano a rimuginare sui videogame invece di raccontare la favola di Pollicino e i suoi fratelli ai loro bambini. Una favola violentissima, leggere per credere. In inglese, dopo strani eventi e pubblicazioni che si intitolano al gioco di parole con il buono, il brutto e il cattivo (Sergio Leone è un meme irresistibile nell’anglofonia) si trova qualcosa di davvero interessante qui, dove si insinua il dubbio che la “cattiva” del 2015 sia proprio la psicologia.

È per caso la psicologia una “bad science”? Un gruppo di ricercatori ha ripetuto una serie di studi sperimentali risalenti al 2008 e solo i risultati di un terzo degli studi sono stati replicati. Risultato desolante, almeno apparentemente. La psicologia è una scienza che continua a essere inaffidabile e poco esatta in un mondo ormai dedito a saperi precisi e inesorabili? Non è così semplice. Il risultato è desolante solo per chi si è nutrito dell’epica di Karl Popper e del metodo scientifico, sempre riproducibile e falsificabile a volontà. La scienza è un metodo, non una mannaia che cala su ogni singolo risultato scientifico. Che solo un terzo dei risultati pubblicati sia poi replicabile, e quindi a rigore “vero”, accade anche in altri rami della scienza con la fama di essere più esatti.

La pubblicazione è frutto di una selezione che tiene conto del rigore metodologico. Di qui a dire che i risultati pubblicati siano già così filtrati da essere tutti replicabili ce ne corre. È il tempo e la comunità scientifica intera che negli anni, anzi nei decenni, seleziona i (pochi) risultati alla lunga davvero significativi. E quindi veri. Ogni ricercatore ha le sue distorsioni e cerca di pubblicare con tutte le sue forze e con tutta l’anima i risultati che confermano le sue idee. Tutta l’epica di Popper dello scienziato che cerca di confutare le proprie stesse idee è un racconto un po’ ingenuo, fatto da un filosofo che non ha mai tirato la carretta del lavoro scientifico, un lavoro molto meno gratificante e divertente di quel che sembra. Occorre pubblicare, pubblicare e pubblicare. O morire: publish or perish.

In altre discipline la situazione non è diversa. Si prenda la ricerca biomedica, che influisce sulle vite e sulla salute di milioni di persone. Mica come quell’ancella della psicoterapia, sempre a metà strada tra scienza e suggestione. Ebbene, più della metà dei risultati biomedici non è riproducibile! Per dieci anni C. Glenn Begley e la sua squadra hanno lavorato come responsabili della ricerca sul cancro per la società farmaceutica Amgen e hanno cercato di replicare cinquantatré studi di riferimento pubblicati su riviste e condotti da laboratori rispettati. Quante volte sono riusciti a replicare i risultati? Solo sette volte. Sette su cinquantatré!. E non è finita. A questo punto basta leggere Scientific American che riporta vari casi storici di risultati alla lunga significativi, ma a loro tempo non replicati e non replicabili. E “a loro tempo” può voler dire secoli, come nel caso del modello di Galilei, la cui definitiva replica arrivò solo nel 1851 (quasi trecento anni dopo) grazie al fisico francese Jean Bernard Léon Foucault con il suo famoso pendolo mentre le prove ideate e “dimostrate” sperimentalmente da Galilei in persone risultarono alla lunga deboli (e alcune sballate)

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