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Pubblicato Martedì, 09 Ottobre 2012 14:32
Vajont, 49 anni dopo
Il 9 ottobre 1963 una frana del monte Toc causava la morte di quasi 2.000 persone. Oggi, il Comitato dei sopravvissuti chiede che vengano riconosciuti i disturbi psicologici
Sono passati 49 anni dal disastro del Vajont. Erano le 22.39 del 9 ottobre 1963 e la tragedia costoò al vita a oltre 1.900 persone, divise tra i apesi di Erto e Casso e Longarone. E, in occasione del triste anniversario, il comitato dei sopravvissuti del disastro del Vajont ha proposto che siano riconosciuti, dallo Stato, i disturbi psicologici ancora provocati dall'evento e che non vengano dimenticate le colpe. La presidente del comitato, Micaela Coletti, ha chiesto che Longarone sia sede staccata di materie universitarie come ingegneria, geologia e psicologia, ''dato il collegamento esistente fra tali discipline e la tragedia del 1963".
"Sono passate più di due generazioni dal disastro del Vajont: 49 anni che non devono farci dimenticare quella tragedia e la necessità di rispettare ogni giorno il territorio''. Lo ha affermato il presidente del Veneto Luca Zaia, ricordando in occasione del 9 ottobre le quasi 2 mila vittime della catastrofe, causata dall'intervento dell'uomo su un ambiente che non era in grado di sopportarlo".
"Io non ero ancora nato - ha sottolineato Zaia - ma il Vajont non appartiene per questo al passato. Continuo ad imparare anche oggi da quei morti, che sono lì ad insegnarci come la difesa del territorio sia fondamentale, sempre e per tutti: nessuno puo' avere la superbia di essere piu' forte della terra e di poterla domare. E' una lezione da ripetere ogni giorno, senza la presunzione di averla appresa una volta per sempre".
"La diga, la montagna franata nel bacino, il cimitero di Fortogna, la nuova Longarone e cio' che ancora si puo' vedere sul terreno spianato allora dalle acque ,sono una testimonianza viva che ci invita all'umilta'. Andiamoci ogni volta che dobbiamo operare sul territorio, perche' la coscienza di doverlo rispettare e assecondare non venga mai messa da parte".
Quei momenti terribili
La frana che si staccò alle ore 22.39 dalle pendici settentrionali del monte Toc precipitando nel bacino artificiale sottostante aveva dimensioni gigantesche. Una massa compatta di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti furono trasportati a valle in un attimo, accompagnati da un'enorme boato. Tutta la costa del Toc, larga quasi tre chilometri, costituita da boschi, campi coltivati ed abitazioni, affondò nel bacino sottostante, provocando una gran scossa di terremoto. Il lago sembrò sparire, e al suo posto comparve una enorme nuvola bianca, una massa d'acqua dinamica alta più di 100 metri, contenente massi dal peso di diverse tonnellate. Gli elettrodotti austriaci, in corto-circuito, prima di esser divelti dai tralicci illuminarono a giorno la valle e quindi lasciarono nella più completa oscurità i paesi vicini.
La forza d'urto della massa franata creò due ondate. La prima, a monte, fu spinta ad est verso il centro della vallata del Vajont che in quel punto si allarga. Questo consentì all'onda di abbassare il suo livello e di risparmiare, per pochi metri, l'abitato di Erto. Purtroppo spazzò via le frazioni più basse lungo le rive del lago, quali Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino.
La seconda ondata si riversò verso valle superando lo sbarramento artificiale, innalzandosi sopra di esso fino ad investire, ma senza grosse conseguenze, le case più basse del paese di Casso. Il collegamento viario eseguito sul coronamento della diga venne divelto, così come la palazzina di cemento, a due piani, della centrale di controllo ed il cantiere degli operai. L'ondata, forte di più di 50 milioni di metri cubi, scavalcò la diga precipitando a piombo nella vallata sottostante con una velocità impressionante. La stretta gola del Vajont la compresse ulteriormente, facendole acquisire maggior energia.
Allo sbocco della valle l'onda era alta 70 metri e produsse un vento sempre più intenso, che portava con se, in leggera sospensione, una nuvola nebulizzata di goccioline. Tra un crescendo di rumori e sensazioni che diventavano certezze terribili, le persone si resero conto di ciò che stava per accadere, ma non poterono più scappare. Il greto del Piave fu raschiato dall'onda che si abbatté con inaudita violenza su Longarone. Case, chiese, porticati, alberghi, osterie, monumenti, statue, piazze e strade furono sommerse dall'acqua, che le sradicò fino alle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimasero che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Quando l'onda perse il suo slancio andandosi ad infrangere contro la montagna, iniziò un lento riflusso verso valle: una azione non meno distruttiva, che scavò in senso opposto alla direzione di spinta.
Altre frazioni del circondario furono distrutte, totalmente o parzialmente: Rivalta, Pirago, Faè e Villanova nel comune di Longarone, Codissago nel comune di Castellavazzo. A Pirago restò miracolosamente in piedi solo il campanile della chiesa; la villa Malcolm venne spazzata via con le sue segherie. Il Piave, diventato una enorme massa d'acqua silenziosa, tornò al suo flusso normale solo dopo una decina di ore.
Alle prime luci dell'alba l'incubo, che aveva ossessionato da parecchi anni la gente del posto, divenne realtà. Gli occhi dei sopravvissuti poterono contemplare quanto l'imprevedibilità della natura, unita alla piccolezza umana, seppe produrre. La perdita di quasi duemila vittime stabilì un nefasto primato nella storia italiana e mondiale: si era consumata una tragedia tra le più grandi che l'umanità potrà mai ricordare. Ulteriori dettagli sul sito www.vajont.net
9 ottobre 2012