Transgender, oltre il dolore di sentirsi stranieri nel proprio corpo | La …

Vittorio Lingiardi, psichiatra e professore di Psicologia dinamica alla Sapienza di Roma, è uno dei maggiori esperti in Italia per quanto riguarda la presa in carico delle persone transgender, cioè che non si riconoscono nel loro genere di nascita. Gli abbiamo chiesto cos’è, da cosa è caratterizzata e come si riconosce la disforia di genere.


1. Cos’è la disforia di genere?
Diciamo subito che il concetto di «identità di genere» (che per molti di noi è indiscutibile, cioè sono un maschio, so di esserlo e non ho dubbi a riguardo» oppure «sono una femmina, so di esserlo e non ho dubbi a riguardo»), da sempre oggetto di narrazioni mitiche e letterarie, dai miti greci di Tiresia o Eracle all’Orlando di Virginia Woolf, è stato esplorato scientificamente solo a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso e rimane in gran parte un enigma.

Disforia è una parola greca, composta da dys- «male» e phérein «sopportare». L’espressione «disforia di genere» si riferisce alla sofferenza che accompagna la condizione in cui l’individuo sente di appartenere – in modo forte, continuativo e immodificabile – al sesso opposto a quello di nascita (tecnicamente si parla di «sesso esperito» e «sesso assegnatoâ€�).

2. Perché si è superata la definizione di «disturbo dell’identità di genere?»
Nella quinta e ultima edizione del Manuale Diagnostico Statistico (DSM-5) si è preferito cambiare l’etichetta diagnostica che riguarda il transessualismo da «Disturbo dell’Identità di Genere» a «Disforia di genere». I motivi del cambiamento sono legati a un importante cambio di prospettiva: la diagnosi di «disturbo» implicava l’idea che l’identità non congruente con il genere assegnato alla nascita fosse di per sé patologica, la nuova dicitura mette invece in risalto la sofferenza che accompagna tale condizione, di volta in volta definita «incongruenza», «incoerenza», «atipicità». Ne consegue che una volta che l’incongruenza è affrontata terapeuticamente e risolta (per mezzo di riassegnazione sessuale chirurgica e terapie ormonali) la diagnosi «decade».

3. Quante persone riguarda?
Non esistono dati statisticamente attendibili sulla popolazione nazionale. Proprio in questi mesi, con il Professor Domenico Di Ceglie (che ha diretto per anni il Gender Identity Development Service della Tavistock e Portman Clinic di Londra) e la Prof. Anna Maria Speranza (Sapienza Università di Roma) stiamo avviando uno studio esplorativo sulle atipicità infantili di genere nei contesti sanitari italiani. Le statistiche internazionali indicano che la prevalenza della disforia di genere varia da 0,005 a 0,014% (da 5 a 14 su 100.000) per gli adulti nati maschi e da 0,002 a 0,003% (da 2 a 3 su 100.000) per gli adulti nati femmina. Dal momento che non tutti gli adulti che richiedono un trattamento ormonale e un intervento chirurgico di riassegnazione del genere si rivolgono alle cliniche specializzate, questi tassi sono probabilmente sottostimati. Le differenze di sesso nel tasso di rinvii a cliniche specializzate variano per fasce di età. Nei bambini e bambine il rapporto tra i nati maschi e le nate femmine varia da 2:1 a 4,5:1. Negli adolescenti il rapporto si avvicina alla parità; negli adulti, il rapporto è a favore dei nati maschi, con tassi che variano da 1:1 a 6,1:1. In due paesi, il rapporto sembra a favore delle nate femmine (Giappone 2,2:1; Polonia 3,4:1).

4. Come si riconosce? Può essere una fase?
È importante specificare che solo nel 30% dei casi la disforia di genere che si presenta in età infantile permane anche dopo l’adolescenza. Ma è anche importante ricordare, in ogni caso, un atteggiamento coercitivo da parte di genitori e insegnanti aggiunge disagio a disagio. Nei bambini e nelle bambine i sintomi sono molto evidenti. I più frequenti sono l’insistenza sul fatto di appartenere al genere opposto e una forte preferenza per il travestimento con abbigliamento tipico del genere opposto, una predilezione per i ruoli tipicamente legati al genere opposto nei giochi di fantasia e per i giocattoli, giochi o attività tipicamente utilizzati o praticati dal genere opposto. In alcuni casi può esserci una forte avversione per la propria anatomia sessuale e il forte desiderio di possedere le caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie del genere a cui si vorrebbe appartenere. Quando sono presenti anche questi ultimi due sintomi è più probabile che la disforia permanga anche dopo l’adolescenza. Nell’adolescenza e nell’età adulta la disforia di genere si presenta di solito con un forte desiderio di liberarsi delle proprie caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie e con un forte desiderio per le caratteristiche sessuali primarie e/o secondarie del genere opposto.

5. Come descrivono il loro disagio le persone che non si riconoscono nel loro genere di nascita?
Un vissuto tipico è quello, come scrive Domenico Di Ceglie, di sentirsi «stranieri nel proprio corpo». Le persone transessuali, nella maggior parte dei casi, non si limitano a desiderare di «diventare» dell’altro genere, ma hanno una convinzione interiore profonda di «essere» dell’altro genere. Il disagio, più che all’identità in sé e per sé, è spesso più legato al mancato riconoscimento da parte della famiglia o della società.

6. Uno dei momenti considerati più critici è quello della pubertà, perché?

La pubertà, con il suo portato di trasformazione fisica e ormonale del corpo, è una fase estremamente traumatica per le persone con disforia di genere. È in questa fase che molti hanno per la prima volta un contatto con la «realtà» materiale del loro corpo (per esempio con la comparsa della barba e l’avvento del menarca). Durante l’infanzia, infatti, legate alla disforia di genere, ci sono alcune fantasie tipiche che riguardano il corpo, come per esempio, per le bambine, che non verranno mai le mestruazioni, o, per i bambini, che un giorno spariranno pene e testicoli.

7. Una volta si riteneva che tutte le persone transgender volessero operarsi per assumere il più fedelmente possibile le caratteristiche anatomiche del sesso opposto. Oggi non è più così e a volte basta, per esempio, la terapia ormonale, o (a seconda del genere di arrivo) la ricostruzione del seno o la mastectomia. Come è possibile?
È una domanda molto interessante, cui è difficile dare una risposta. Il transessualismo è una condizione che ha senz’altro radici biologiche ma ha anche importanti declinazioni e implicazioni storiche, sociali e culturali. Con la Professoressa Speranza, il Dottor Giovanardi e altri colleghi e colleghe abbiamo appena concluso un’importante ricerca, in corso di pubblicazione, sulle diverse caratteristiche di personalità e di attaccamento in un gruppo di persone transessuali seguite dal SAIFIP (Servizio di Adeguamento tra Identità Fisica e Identità Psichica dell’Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini di Roma). Credo esistano infatti molte forme di transessualismo e transgenderismo, in cui confluiscono componenti di tipo genetico e biologico (a livello endocrino, neurofisiologico, anatomico), familiare e ambientale (le aspettative dei genitori, la relazione con i caregiver e il complesso intreccio delle identificazioni), sociale e culturale. È possibile che negli ultimi tempi il rapporto con l’identità sessuale si sia fatto più complesso e meno deterministico (si veda in questo senso la levata di scudi contro la fantomatica «ideologia del gender»). Venendo alla sua domanda, è possibile che alcuni e alcune cerchino di vivere in modo meno chirurgico la propria disforia di genere e provino a costruire o interpretare la propria identità con interventi chirurgici o ormonali che non modificano l’anatomia dei genitali. Non dimentichiamo che per molte persone transgender la cosa più importante è il riconoscimento della loro identità sul piano fenotipico (come appaiono e vengono percepite dagli altri) e anagrafico (cosa viene riportato sui documenti di identità). In alcuni paesi, per esempio la Germania o l’Argentina, questa differenza, diciamo, tra transessualismo chirurgico e transessualismo anagrafico è comunque riconosciuta dalla legge (non c’è bisogno di essere operati i operate per appartenere, sulla carta di identità, al genere desiderato).

8. A volte si sente parlare del cambiare sesso quasi come di un capriccio, qualcosa che riguarda atteggiamenti superficiali. È davvero così?
Non lo è sicuramente nella maggior parte dei casi. Consiglio a chi non ha esperienza clinica o personale del transgenderismo la visione di alcuni film molto utili per capire il fenomeno: da La mia vita in rosa di Alain Berliner a Boys don’t cry di Kimberly Peirce, dal celebre Transamerica di Duncan Tucker al più recente Una nuova amica di François Ozon e alla serie Transparent. È una condizione sentita come necessaria e immodificabile che presenta problemi di accettazione sociale molto forti. Per questo è importante e utile che le persone avviate al percorso di riassegnazione sessuale siano seguite da équipe multidisciplinari in cui siano presenti medici, psicologi e psicoterapeuti.

Nella foto di apertura Rachel Levine, consigliera per la sanità della Pennsylvania, negli Stati Uniti. È una dei più alti funzionari transgender del Paese

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