Milano - Il nostro cervello è in grado di rispondere alla terapia farmacologica contro l’Alzheimer? Una risonanza magnetica può dirlo. Lo studio condotto dal Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca, in collaborazione con l’Azienda Ospedaliera Niguarda Cà Granda e il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Pavia (professoressa Gabriella Bottini), pubblicato sulla rivista Behavioral Neurology, ha dimostrato che i pazienti che subiscono un progressivo peggioramento della malattia, nonostante il trattamento farmacologico con inibitori dell’acetilcolinesterasi - principio attivo utilizzato in larga misura nella terapia per contrastare l’Alzheimer -, hanno una significativa atrofia dei nuclei profondi del cervello colinergici e dei fasci di sostanza bianca circostanti.
«La ricerca – spiega Eraldo Paulesu, docente di Psicobiologia e responsabile dello studio - rappresenta quella che gli anglosassoni chiamerebbero una "proof of principle" , ovvero la dimostrazione che potrà diventare possibile monitorare efficacemente la risposta alla principale classe di farmaci utilizzati per ritardare il declino cognitivo nella malattia di Alzheimer. Bisogna ricordare che non esiste un singolo test di laboratorio o clinico per fare diagnosi di demenza né tanto meno per predire la risposta ai farmaci che rendono disponibile una maggior quantità di acetilcolina nel cervello. Attraverso una risonanza magnetica strutturale analizzata con tecnica di Voxel-Based Morphometry è possibile individuare le aree del cervello in cui c'è una riduzione significativa di sostanza grigia oppure di sostanza bianca».
Lo studio, finanziato dall’Assessorato alla Sanità della Regione Lombardia e condotto su un panel di 23 pazienti, ha dimostrato che una risonanza magnetica strutturale, eseguita dopo un breve periodo di trattamento farmacologico (9 mesi), permette di differenziare i pazienti che rispondono alla terapia da quelli che non traggono beneficio alcuno. Sebbene preliminari, i risultati di questo studio rappresentano il primo tentativo sistematizzato di creare un protocollo multidisciplinare di valutazione dell’efficacia di un farmaco, protocollo che a lungo andare potrebbe rivelarsi promettente nell’identificare, prima di iniziare il trattamento, i pazienti a cui prescrivere il farmaco. Questi risultati potranno avere un impatto di rilevanza nazionale nel contribuire al miglioramento della pratica clinica nel trattamento delle demenze e nel ridurre i costi per il sistema sanitario nazionale. Si stima infatti che in un paese delle dimensioni dell’Italia vi siano circa 65000 nuovi casi di probabile malattia di Alzheimer ogni anno e che il costo per la cura di ogni singolo paziente sia pari a circa 1500 euro all’anno. In totale si spendono 8 miliardi di euro all’anno per la cura delle demenze, di cui oltre 2 per i farmaci.
«Lo studio – conclude Paulesu - getta le basi per indagini su più larga scala con cui, combinando misure morfometriche cerebrali e misure neuropsicologiche, si possa predire la risposta del singolo paziente ad una classe di farmaci, gli anticolinesterasici, i quali, pur dotati di una qualche efficacia nelle demenze, sono gravati da potenziali importanti effetti collaterali e da importanti costi per la sanità pubblica e per i pazienti. Abbiamo avanzato una richiesta di finanziamento al Ministero della Salute per poter condurre quello studio su più larga scala che ci dovrebbe permettere di passare dalla dimostrazione della "proof of principle" alla pratica clinica».