STUPRO L’AQUILA: L’ESPERTA ”CAUSE NEL CONTESTO SOCIALE”

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di Laura Biasini

L’AQUILA - “Si tratta senza dubbio di un problema legato al contesto sociale all’interno del quale si vive ma l’educazione e la formazione della persona costituiscono i fattori cui bisogna far riferimento quando ci si chiede perché questi episodi si verificano”.

Questa la lettura di Patrizia Di Fabrizio, professoressa di Sociologia della devianza e della criminalità presso la facoltà di Psicologia dell’Università dell’Aquila, ascoltata in merito alla violenza sessuale ai danni della giovane studentessa laziale all’uscita della discoteca “Guernica” a Pizzoli (L’Aquila), nella notte tra l’11 e il 12. 

Per la vicenda sono indagate quattro persone, tre militari del 33^reggimento Acqui e una ragazza. Il  capo d'imputazione è di violenza sessuale e lesioni ma, come ha spiegato ieri l'avvocato della giovane Enrico Maria Gallinaro, l'accusa potrebbe cambiare a breve in tentato omicidio.
 
Viene da chiedersi se la realtà sociale aquilana dopo il 6 aprile 2009 possa in qualche modo aver creato i presupposti per un episodio di tale efferatezza, ma la professoressa spiega che “non c’è più tessuto sociale, dopo il terremoto la disgregazione del territorio è totale, con la conseguente perdita di punti di riferimento sia fisici che emotivi, ma le cause di questi episodi vanno cercate nell’assenza delle istituzioni deputate all’educazione e alla formazione delle persone, la famiglia e la scuola”.

Quali sono i fattori di carattere sociale che possono portare a episodi di questo genere?

"Credo che la violenza sia parte integrante della natura umana e che la predisposizione all’aggressività possa solo essere accentuata dal contesto in cui si cresce. Del resto  bisogna considerare che fino a poco tempo fa lo sfogo della rabbia veniva considerato in maniera del tutto positiva".

"Ci sono poi contesti in cui la predisposizione naturale alla violenza viene alimentata quotidianamente e il mondo militare è senza dubbio uno di questi. All’interno delle istituzioni militari, infatti, ogni giorno può capitare che vengano compiuti piccoli soprusi, come se si mettesse in atto una sorta di allenamento costante all’aggressività, anche se istituzionalmente questo avviene a scopo benefico.  Il fatto in sé non costituisce una sorpresa dal momento che queste dinamiche prendono forma normalmente all’interno di gruppi. Di fatto l’esercito è una di quelle realtà che meglio rappresenta il concetto di branco".

Il fatto che l’indagato sia un militare può determinare la perdita di fiducia nelle istituzioni di pubblica sicurezza, proprio quelle che dovrebbero fare in modo che queste cose non si verifichino?

"No, anche perché bisogna considerare che ci sono casi e casi. Queste istituzioni sono sempre molte vicine alla popolazione e questi episodi sono comunque da considerare casi isolati, che non possono e non devono offuscare l’immagine dell’istituzione".

L’indifferenza di quanti si trovano ad assistere a questo tipo di violenze senza intervenire che fa spesso da cornice a tali fatti di cronaca, si può considerare conseguenza di una certa cultura della “permissività”?

Credo che più che altro l’indifferenza di alcuni rientri proprio all’interno delle dinamiche del branco. Non tutti hanno parte attiva, anzi il fatto di non consumare in prima persona la violenza li fa sentire al riparo dall’eventualità di essere perseguiti. Questo la dice lunga sul modo in cui gli individui che si rendono autori, in prima persona o in maniera passiva, di atti di violenza sessuale come quello in questione, considerino il corpo della donna. La figura femminile viene ancora concepita come un oggetto, niente di più lontano da un essere pensante, una figura debole che deve sottostare al maschio.

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22 Febbraio 2012 - 13:04 - © RIPRODUZIONE RISERVATA

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