Storia d’amore lesbica, con prole. La Chiesa si scatena (e anche …

Vecchi e nuovi pregiudizi si accavallano contro la gravidanza di Francesca Vecchioni, omosessuale e figlia di Roberto, che ha partorito due gemelle dopo una fecondazione eterologa in Olanda. Monsignor Fisichella e il golden boy piddino di Firenze hanno emesso le loro sentenze, ignorando i pronunciamenti delle più accreditate organizzazioni psicologiche, psichiatriche e pediatriche internazionali.

La polemica è nata dalla decisione di Francesca di raccontare al settimanale Oggi la sua storia d’amore con Alessandra. La vicenda è stata ripresa ieri dal network partecipativo AgoraVox. “Voglio rendere pubblica la mia storia – ha spiegato Francesca – per dimostrare che la famiglia nasce da un’unione sentimentale onesta e profonda che prescinde dal sesso dei suoi componenti. Mi sembra superfluo sottolineare che l’omosessualità non è una malattia, né un devianza”.

La notizia, però, ha assunto ben altra rilevanza (da qui il polverone) per effetto della scelta delle due signore di rivolgersi con successo ad un centro di fecondazione assistita in Olanda (visto che in Italia la legge 40 non lo consente) con procedura eterologa: due mesi fa Francesca ha dato alla luce due gemelle, Nina e Cleo.

I nodi cruciali sono due, intrecciati pericolosamente l’un l’altro. In primo luogo, due donne che convivono e si amano sono diventare figure genitoriali; come se non bastasse, hanno l’ardire di rivendicare diritti minimi, visto che per la giurisprudenza italiana a queste due bambine non è offerta alcuna forma di tutela familiare. “Io e la mia compagna Alessandra – ha spiegato Francesca ad Oggi – ci amiamo, abbiamo due figlie e vorremmo che fossero tutelate attraverso l’affermazione dei nostri diritti. E’ assurdo che, per esempio, nel caso io venissi a mancare la mia compagna per la legge italiana sarebbe una perfetta estranea rispetto alle bambine, le quali sarebbero le prime vittime di una situazione ingiusta”.

Il settimanale in questione ha ritenuto opportuno alimentare immediatamente una sorta di contradditorio, coinvolgendo nel confronto monsignor Rino Fisichella: forse per montare subito la polemica sulle agenzie di stampa, o forse per non inimicarsi la Chiesa dopo averla costretta a replicare in seconda battuta. Comunque sia il porporato ha svolto il suo compito, in punta di catechismo: “Un figlio non può essere solo la conseguenza del desiderio irrefrenabile di una persona adulta, ma frutto di un amore che, nella complementarità, permette la crescita e lo sviluppo armonico dei figli. Ciò che si ritiene un diritto per sé, non sempre è rispettoso del diritto del figlio che vorrebbe avere anche un padre!”.

E’ piuttosto singolare che l’accusa di coltivare il “desiderio irrefrenabile” sia indirizzato in via esclusiva ad una coppia che ha fatto ricorso a trattamenti di procreazione artificiale, con l’aggravante dell’omosessualità: che cosa suggerisce a monsignor Fisichella che una cattolicissima coppia infertile che abbia deciso di farsi torturare ‘naturalmente’ da cattolicissimi e costosissimi ginecologi per poi magari ricorrere (di nascosto a Santa Madre Chiesa) alla fecondazione assistita o che abbia investito 20mila euro nell’adozione internazionale non sia stata mossa da quello stesso “desiderio irrefrenabile” sulla pelle di un bambino?

Le affermazioni di monsignor Fisichella hanno comunque radici ben comprensibili nel Paese europeo che più risente (e in modo grossolano) dell’influenza di una Chiesa cattolica per nulla incline a ritrarsi al cospetto di chi le rimprovera da un lato le indebite intromissioni nella vita civile e dall’altro il mancato rispetto di elementari princìpi di laicità.

Il caso ha voluto che pochi giorni fa si sia espresso sull’argomento anche il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, intervistato dal portale ‘gay.it’. Dopo aver avallato la posizione del suo partito in merito alla regolamentazione delle coppie di fatto, di qualunque sesso, ha manifestato il suo disaccordo sull’eventualità di consentire l’adozione agli omosessuali.

E ha aggiunto: “Iniziamo piuttosto dal semplificare le regole del gioco: ancora adesso una famiglia eterosessuale che vuole adottare un figlio deve sottoporsi ad un iter burocratico controverso ed assurdo”. Furba affermazione, quest’ultima, perché utile a spaccare il fronte dei diritti civili e ad attirare sull’astro emergente del Pd i consensi di qualche associazione di famiglie adottive.

Eppure, la sua, resta una traballante opinione. E’ certamente vero che l’iter preadottivo appare “burocratico e controverso” e va aggiunto che le coppie in attesa sono già oggi più numerose dei bambini adottabili, ma la questione è un’altra: ovvero condividere o meno la possibilità di allargare la base delle coppie anche alle non ‘tradizionali’ contro ogni discriminazione e pregiudizio, per poi gioire o patire insieme a fronte di successi o insuccessi.

Non si tratta di una richiesta postmoderna (oltreché eretica), ma di una constatazione in seguito ai risultati degli studi scientifici più attendibili in ambito psicologico, psichiatrico e pediatrico degli ultimi quindici anni.

In un interessante testo (edito da Franco Angeli nel 2000 e più volte ristampato) Rosalinda Cassibba e Laura D’Odorico (ricercatrici e docenti di Psicologia dello Sviluppo presso le Università di Bari e Milano-Bicocca), si sono soffermate sulla Valutazione dell’attaccamento nella prima infanzia, richiamando le tesi di John Bowlby sull’argomento ed evidenziando gli avanzamenti sul piano teorico e metodologico a proposito della cosiddetta “monotropia”: varie esperienze di vita dei genitori moderni comunicano infatti “in modo più o meno implicito – hanno scritto – di considerare come caregiver l’educatrice, la nonna o la baby sitter (…) Nella società moderna il bambino può disporre di più figure di riferimento importanti che costituiscono (…) una valida ‘base sicura’. Sulla base di questa constatazione – hanno aggiunto le due ricercatrici – si potrebbe riformulare la teoria di Bowlby considerando necessaria, ai fini di uno sviluppo adeguato del bambino, non tanto la costante presenza di una figura materna quanto, invece, la costante disponibilità di una figura di attaccamento, qualunque essa sia (…)”.

Se non è dunque decisiva nemmeno una figura materna tradizionale, al fine di garantire la ‘base sicura’ del bambino – lasciando intendere che persino la crescita in una casa famiglia, purché con un ipotetico rapporto di ‘uno a uno’ tra adulto e bambino, potrebbe bastare allo scopo – per quale motivo una coppia gay dovrebbe risultare per definizione più inadeguata di una etero?

Autorevoli conferme giungono in seguito al pronunciamento di numerose associazioni internazionali, come ad esempio l’American Academy of Pediatrics, i cui pronunciamenti sono stati suffragati dall’American Psychiatric Association.

La prima si è espressa a favore di una equiparazione tra coppie omosessuali ed eterosessuali in quanto esiste “una notevole letteratura scientifica secondo cui i bambini con genitori omosessuali hanno le medesime aspettative e i medesimi vantaggi dei bambini con genitori eterosessuali”.

La seconda ha espresso la stessa posizione in quanto “numerosi studi degli ultimi trent’anni dimostrano che i bambini cresciuti da coppie omosessuali hanno lo stesso livello di funzionamento emozionale, cognitivo, sociale e sessuale dei bambini cresciuti da genitori eterosessuali”. L’ottimale sviluppo dei bambini non dipende, ha deliberato l’associazione, dall’orientamento sessuale dei genitori ma dalla “stabile unione con gli adulti che si sono impegnati ad allevarli”.

In seguito, anche l’American Psychological Association ha approvato una risoluzione a favore dell’adozione da parte di coppie omosessuali in quanto le ricerche hanno dimostrato che “il benessere dei bambini non è collegato all’orientamento sessuale dei genitori”.

Se non bastasse, potrebbe risultare interessante il pronunciamento della Pontificia Universidad Javeriana di Bogotá, diretta da padri gesuiti: “Non c’è nessun elemento che indichi che l’orientamento sessuale dei genitori incide sull’adeguato sviluppo dei bambini”.

Per capire come alcuni infondati condizionamenti culturali possano influire sulla vita di una collettività nella sua epoca storica, sarebbe interessante scorrere a ritroso (andandole a ripescare dalla stampa dell’epoca) le opinioni a sostegno del ‘no’ al divorzio. Si scoprirebbe facilmente che le argomentazioni contro quell’ipotetico (poi sancito) diritto vertevano proprio sui drammi che, a detta della gerarchia ecclesiastica e dei suoi sostenitori, si sarebbero dovuti abbattere inesorabilmente sulla psiche dei figli dei divorziati.

Mentre è ormai patrimonio culturale comune l’idea che problemi psicologici possano sopraggiungere in bimbi costretti a crescere in ambienti conflittuali sulla pelle dei minori medesimi, al di là della “stabilità” o meno della famiglia di provenienza.

Ritenere che quella ‘tradizionale’ dia più garanzie in tal senso è una leggenda senza più alcun fondamento, come dimostra di per sé un dato inquietante contenuto nel rapporto Eures del 2007: un omicidio su tre, nel 2006, è avvenuto tra le mura domestiche (nonostante lo scandalismo che circonda da sempre, sui mass media, gli omicidi compiuti dai ‘serial killer’, dagli immigrati ‘clandestini’ o dai ‘diversi’ di ogni risma).

Proprio la ‘coppia affettiva’ ha detenuto il primato nei delitti compiuti in famiglia, con 103 vittime complessive, pari al 52,8%, e tra questi è nel rapporto coniugale che si è contata la percentuale più elevata (70 casi, pari al 35,9% degli omicidi familiari).

Da qui la richiesta di Giuseppina La Delfa, presidente dell’associazione Famiglie Arcobaleno: “Vogliamo parità di diritti e di doveri su qualsiasi questione: matrimonio civile, adozione, tutele dei figli. Come Inghilterra e Francia si apprestano a fare ed è già una realtà in Spagna, Belgio, Danimarca… “.

Paolo Repetto

Leave a Reply