Quando lo sport è pericoloso… figli e genitori a confronto

Fare sport fa bene… Fare sport permette di socializzare… Fare sport ti insegna a vivere… Ma ci sono sport pericolosi, per dirla semplice e a chiare lettere: c’è sport e sport.

Vorrei cominciare con questo missile Psicologo-Lettore un articolo dal tema delicato, ma che vorrei affrontare con la giusta dose di buonsenso. Il tema nasce da alcune serate formative a cui ho avuto modo di partecipare riguardanti il tema del rischio nello sport.

Per esemplificare possiamo suddividerlo in due tipologie:

- rischio psicologico (burn out, sviluppo evolutivo, problemi di personalità e dispercezioni, etc.).

- rischio fisico (stress fisico, infortuni, alimentazione, doping, etc.).

Sono cose che bene o male un po’ si conoscono, però osservando le diverse varietà di sport mi sono reso conto di come la tipologia crei un abisso sulla percezione del rischio, soprattutto quando questo viene visto dagli occhi di un genitore. Facciamo un esempio, un figlio un giorno dice: “basta con il calcio, voglio correre sui go kart”. (STOP: premessa importante, non sto ponendo dei giudizi di valore su nessuno sport, come vedremo più avanti, per ora concedetemi il beneficio del dubbio fino alla fine dell’articolo).

Ipotizziamo anche che lui sia sicuro di questa scelta e abbia conoscenze sufficienti per decidere. Eliminiamo anche il problema economico e ipotetici vincoli di accesso.

Per un genitore abituato a vedere il figlio segnare gol, sporco di fango quando piove, con qualche contusione e sbucciatura quando va male, non deve essere così facile da metabolizzare un cambio di rotta così differente.

Ecco che appare uno spettro: la percezione del “vero” pericolo, che sicuramente è già presente anche negli altri sport (sappiamo bene chè è presente ovunque) ma che sembra essere più marcato in determinati sport. Togliamoci un dubbio: è così, basta chiederlo a chi nel settore ci vive (banalmente ad un commissario di gara o ad un commissario a bordo pista). Qualsiasi sport che supera il limite fisico dove si usano strumenti che oltrepassano le barriere delle capacità naturali (anche sci e mountain bike possono far parte di questa categoria) aumenta la percentuale di rischio. Non è un problema dirlo, anzi se non lo facciamo non facciamo bene alla categoria (lo dico con cognizione di causa, ho ancora la licenza di guida sportiva nel portafoglio, seppur scaduta ).

Ma non è questo il problema, piuttosto quale deve essere, secondo voi, l’obiettivo di uno sport e di uno sportivo? Al di là della socializzazione e di ciò che ormai ci siamo detti negli articoli precedenti…

La risposta è abbastanza semplice: la pienezza. Da non intendersi come l’essere pieno di sè ma piuttosto come quella spinta a seguire le proprie aspirazioni e predilezioni, quella forma di azione continua che porta a fare quello in cui sei portato. Quando un/a ragazzo/a ottiene questa restituzione dallo sport, allora quello è lo sport per lui/lei. Non avrebbe molto senso impedire all’atleta di fare quello che adora fare, si rischia di non concedergli lo sviluppo delle sue naturali caratteristiche di crescita e di personalità, piuttosto diventa necessario un primissimo esercizio: il riconoscimento delle emozioni. Troppo spesso si confondono le emozioni dei genitori con quelle dei figli, sia perchè sono in continua interazione, sia perchè frequentemente si amalgamano ed allora il figlio ha paura, oppure è estremamente determinato, per un banale riflesso. Un primo passaggio deve essere necessariamente il riconoscimento emotivo dell’uno e dell’altro. E’ più facile per un genitore forse, capire i confini emotivi suoi e del figlio, ma a volte è solo un occhio esterno la giusta cartina tornasole di una relazione a due. Fatto questo a quel punto è possibile instaurare un dialogo reale e concreto da parte di entrambi su cui stabilire le migliori modalità di approccio allo sport. Solo a quel punto si può capire dove sta il rischio reale e come prevenirlo, poichè l’atleta che ricerca la pienezza del sè di certo non vuole farsi male, poichè è un principio opposto alla sua necessità.

(Non sto approfondendo il tema della ricerca delle emozioni forti, necessiterà di un articolo a parte).

Nel caso in cui, invece, nel figlio si manifestino sentimenti distruttivi piuttosto che costruttivi allora forse è la sua lettura dello sport (e della vita?) a richiedere un’ulteriore riflessione, piuttosto che la pericolosità dello sport in sè.

La verità non può risiedere unicamente nel “c’è sport e sport” come ho provocatoriamente scritto in testa all’articolo è piuttosto nel “c’è genitore e genitore”, oltre che nel “c’è figlio e figlio”, ovviamente.

Dott. Mauro Lucchetta – Psicologo dello Sport

Per domande o dubbi: mauro.lucchetta@psicologiafly.com oppure visitate il sito: www.psicologiafly.com

 

 

 

 

 


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