Psicologia: Tre tipi di solitudine di Enrico Maria Secci

La solitudine è all’apparenza un concetto semplice, una condizione data dalla mancanza di compagnia o, più in generale, dalla privazione della socialità. Solo è chi non conosce persone di riferimento, chi non ha amici e chi non saprebbe su chi contare in un momento di necessità. Quando si pensa alla solitudine ci si riferisce istintivamente alla sua dimensione oggettiva, ovvero alla reale assenza di legami significativi. Così, per esempio, è comune riferirsi a qualcuno che non abbia un partner come a una persona sola, espressione che tradisce una certa commiserazione.
La solitudine è abitualmente associata alla tristezza e alla paura, è percepita come l’indesiderabile e sfortunato destino di qualche conoscente e di molti sconosciuti che orbitano sperduti oltre la linea traslucida e rassicurante della normalità. Nel suo significato più concreto, è un sentimento che attribuiamo agli altri ma è anche il fantasma da cui sfuggiamo e ci difendiamo riparandoci nelle relazioni sociali, talvolta senza riflettere sulla qualità dei nostri rapporti.

I “soli” e i “non-soli”. Lo stigma sociale apposto sulla solitudine è tale da indurre molte persone a scelte amicali o sentimentali poco o per nulla appaganti, pur di assicurarsi un posto nella schiera dei “non-soli”. Il timore, a volte inconsapevole, di restare isolati, ovvero di passare del tempo in esclusiva compagnia di se stessi, può paradossalmente precipitare intere esistenze in un limbo affollatissimo di succedanei interpersonali, di pseudo-amici e di pseudo-amori, con la sola scaramantica funzione di evitare la vituperata solitudine.
In questo modo, per risolvere il problema della solitudine oggettiva si crea e si alimenta un altro problema: la solitudine soggettiva. Si è soggettivamente soli quando, pur stando in mezzo alla gente, agli amici o col partner si avverte un senso pervasivo di insoddisfazione, si sperimenta un’inquietudine strana, prossima alle lacrime; quando il nostro mondo sociale inizia ad apparire come un collage malamente appiccicato sul piano continuo dell’insofferenza, della noia e della finzione, quando la routine e la quotidianità si susseguono senza gioia.

La solitudine soggettiva. La solitudine soggettiva è una landa più cupa e desolata dell’isolamento che prova chi, suo malgrado, abbia perso i suoi affetti nel corso della vita, come accade nel caso di lutti o, transitoriamente, si verifica tra gli emigrati o i profughi. Questi ultimi subiscono una circostanza e, anche se con molta fatica, possono adattarvisi e poi muoversi alla ricerca di chi possa modificare la loro condizione. Chi è soggettivamente solo, invece, é parte attiva e responsabile di un intrico di non detti, di rapporti di facciata e di cammouflage sentimentali di cui, tra corsi e ricorsi, finisce per sentirsi ostaggio e in cui continua a identificare gli unici riferimenti affettivi possibili.

Mausolei virtuali. Un riflesso abbagliante della solitudine soggettiva è l’abuso dei social-network e delle chat, dove si instaurano veri e propri cimiteri relazionali, con un loculo virtuale e una foto per ciascuno; strumenti il cui utilizzo può diventare inversamente proporzionale all’autenticità della persona e dei suoi legami. Chi si sente soggettivamente solo, spesso se ne vergogna e nutre un senso di colpa nei confronti di quelli che ha assurto ad amici o verso il partner. Tende di conseguenza a protrarre la finzione e a promanare, anche via facebook, un’immagine di sé conforme al sistema in cui in realtà si percepisce alieno, stanco e incompreso. Nulla è più straniante che simulare partecipazione, dimostrare stima e fingere una qualche risonanza emotiva con quelli che, alla fine, ignorano la nostra solitudine sostanziale.

Un terza solitudine. Ma esiste una terza accezione della solitudine, quella di chi non respinge né camuffa la propria identità e integrità e vive per un certo periodo la propria vita tra sé e sé, e si concede il lusso di intrattenersi quasi esclusivamente con la propria presenza del suo essere umano. C’é chi coltiva la propria individualità, familiarizza con le contraddizioni interiori, fa a pugni con la paura di restare da solo, sfida il tabù dell’isolamento sociale. Impara a dire di no e a dire “grazie”, a dare e ricevere incondizionatamente e a riconoscersi un valore senza elemosinare e senza conformarsi ai rituali appresi, che impongono di avere ad ogni costo amici, mariti, mogli, figli, quali che siano, purché li si abbia.

Questa solitudine terza rispetto alla solitudine oggettiva e a quella soggettiva, può rappresentare un momento catartico, produrre un’auto-consapevolezza in grado di attivare nuovi meccanismi relazionali e di realizzare, selettivamente, una vita sociale finalmente appagante.
Una condizione che soddisfa questa diversa, in qualche modo eretica, visione di se stessi nel mondo é quella di fare ordine e pulizia, saper lasciare chi, seppure involontariamente, ci vincola e ci deprime e impegnarsi a sciogliere la catena di credenze negative e di sensi di colpache, molto spesso, affollano l’universo dei “non-soli”.



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