Roma, 3 feb. (AdnKronos Salute) – Alcune denunciano invano le aggressioni, altre tacciono per anni. Perché le donne non si ribellano a mariti, compagni o fidanzati aggressivi, verbalmente o fisicamente? “Sono molteplici le motivazioni della mancata ribellione della donna. Senso di colpa, timore dell’abbandono e mancanza di sostegno esterno sono le motivazioni principali. Molto spesso gli aggressori riescono a rimandare la responsabilità della violenza sulla donna che ne è vittima: se tu fossi più complice, se tu non fossi sempre arrabbiata, se tu mi lasciassi in pace quando sono nervoso. Queste sono alcune delle frasi collegate agli atti di violenza”, spiega Paola Vinciguerra, psicoterapeuta, presidente Eurodap, Associazione Europea Disturbi da attacchi di Panico e Direttore della Clinica dello Stress a Roma.
“La sensazione che il comportamento violento sia in qualche modo provocato dagli inadempimenti della donna – prosegue – la porta a sentirsi responsabile delle azioni altrui. Il passo successivo sarà quello di attivarsi per far fronte a tutte le richieste dell’uomo, per non scatenare la sua ira e riuscire così a dimostrare di essere adeguata, giusta. Per poter andar bene si deve essere come l’altro ci vuole, altrimenti diventeremo responsabili delle sue reazioni. Ciò scatena nella donna un senso d’inadeguatezza e le fa credere di essere responsabile, e quindi colpevole, di portare la relazione alla distruzione. ‘Se solo riuscissi ad essere più paziente, meno nervosa, sicuramente tutto andrebbe per il meglio, come infatti prima andava’, si tende a pensare. Questa – dice Vinciguerra – è la frase tipica che alcune vittime pronunciano dopo aver parlato in senso negativo dei comportamenti del loro partner violento. Immediatamente dopo, puntano il riflettore verso se stesse, rappresentandosi come le colpevoli di quel dramma”.
“Per quanto riguarda il timore dell’abbandono – aggiunge l’esperta, anche Responsabile della Comunicazione e Sviluppo Emdr Italia – bisogna dire che l’idea di poter affrontare la vita da soli può, a volte, spaventare di più del dover vivere una relazione disfunzionale, che per quanto tale è comunque in grado di riparare alla sensazione di vuoto. Il vuoto – dice Vinciguerra – è il problema che più affligge tutte le persone che per la loro storia hanno avuto difficoltà a strutturare un saldo rapporto con il sé”.
“La sicurezza in se stessi è fondamentale per affrontare l’ignoto, le difficoltà, le paure. Se questo manca, la nostra scelta non potrà essere certo di avventurarci, senza armi, nei meandri della vita: dobbiamo trovare un punto di riferimento e ad ogni costo rimanerci attaccati per non affrontare quella sensazione di perdersi nel vuoto. Quindi, si pensa, meglio un uomo violento che la solitudine”.
Ma non è solo questo il problema. “Molto spesso le vittime di violenza possono trovare delle difficoltà nel ricevere aiuto. La mancanza di un supporto sociale, parentale e istituzionale è sicuramente uno degli elementi che maggiormente concorrono a frenare la ribellione. Le vittime si trovano così sole, impaurite dalle continue minacce del partner, e spesso senza una via di fuga concreta. A volte sono proprio gli amici e parenti stretti a giudicarle, colpevolizzandole di voler distruggere la famiglia. Nel pensare sociale è ancora fortemente radicata, sia che si parli di violenza sessuale che di quella familiare, l’idea che la vittima ‘non è vittima’. Si dà per scontata una sua responsabilità nello scatenare la reazione dell’aggressore. Questo è il vero problema sociale con il quale ci dobbiamo confrontare”.
“Le leggi sicuramente aprono un varco nella possibilità di un cambiamento, ma se non accompagnamo tutto ciò con un’educazione psicologica che modifichi i modelli interiorizzati, continueremo a sentire le madri che condannano le figlie perché vogliono lasciare un marito manesco e a sentir dire che ‘se sei stata violentata in fondo andando in giro di notte da sola te la sei cercata’”, conclude Paola Vinciguerra.