“La differenza è che, mentre voi mi ritenete dalla parte del torto, io non mi ritengo dalla parte della ragione” è quanto provo a tenere a mente quando comincio confronti accesi. Il dialogo è lo strumento principe di ogni interazione, attraverso di esso le relazioni nascono, crescono e muoiono, due o più persone si comprendono o si fraintendono. Ci sono altri modi di comunicare, ma laddove c’è la parola c’è il dialogo.
Da terapeuta, il dialogo, oltre a rivestire la rilevanza che ha per ogni comune persona, costituisce anche il mio campo di lavoro. E’ la parola che cura, se inserita con efficacia in un dialogo. Essa, alternata sapientemente alla sua assenza, il silenzio, può fare la differenza nelle situazioni di disagio. La parola è il bisturi del terapeuta, il suo uso chirurgico permette di sanare o riaprire le ferite emotive nascoste sottopelle.
Lavorando in situazioni di maltrattamento domestico o di conflitto, quello che risalta è che spesso è una comunicazione disfunzionale l’origine del malessere di una coppia e questo può portare uno dei due membri ad agire un comportamento violento, ritenendolo talvolta giustificabile, in quanto ci si convince che non ci siano altri modi per far rispettare le proprie posizioni (“se l’è cercata”, “non avevo alternative”, “non capiva” dicono alcuni uomini autori di violenza).
L’esperienza personale e professionale mi ha portato a evidenziare due diverse forme di dialogo che possono presentarsi nelle interazioni.
Nella prima due persone concordano sostanzialmente con quanto discutono, è una comunicazione serena in cui ognuno rinforza le tesi dell’altro, perché sostanzialmente sono le proprie o vi si avvicinano, non vengono messi in discussione i valori e le credenze, ci possono essere momenti di vivacità, ma il tutto è sempre contenuto. Si esce da queste conversazioni con una serie di conferme, si è soddisfatti, ci si è sentiti capiti, riconosciuti e non soli. Tutto questo non è banale e scontato ed è indubbiamente positivo, ma lo sforzo che ci ha portato ad essere d’accordo con l’altro è stato minimo, in quanto l’accordo esisteva. Non mi dirigo verso l’altro, ci troviamo già nello stesso punto.
Le cose si complicano quando invece l’altro ha tesi e vissuti diversi, quando non diametralmente opposti ai nostri, è a quel punto che può nascere, a mio avviso, un’altra forma di dialogo molto più genuina ed utile ed è la seconda categoria che evidenzio, perché è a quel punto che le due persone devono trovare l’energia, la capacità e soprattutto l’intenzione a comprendere senza giudicare e a farsi comprendere senza imporre. Se questo non accade, la comunicazione fallisce, può cessare o assumere forme aggressive. Non c’è sforzo dove c’è accordo in partenza, esso può diventare invece notevole quando questo manca. Chi non è d’accordo viene giudicato inesorabilmente, non riconosciamo l’altro se non come altro da noi, dando però alla diversità con la quale ci confrontiamo una valenza negativa, perché valutativa, creo dei parametri di cui mi faccio metro di misura universale. Il leitmotiv è “Ho ragione io, l’ultima parola spetta a me”. Avere un riconoscimento diventa un accanimento del proprio ego, da una sana richiesta di attenzione si passa ad una disfunzionale pretesa. Si esce da queste conversazioni con della rabbia dentro e con dubbi che proprio questo totalizzante sentimento non ci permette di approfondire.
E’ però solo in questa seconda forma di dialogo che può avvenire il vero incontro tra due persone, se si imparano a gestire pensieri ed emozioni diversamente. Non c’è incontro nel trovarsi già in accordo, esso è insito nella sua ricerca comune e nella consapevolezza della possibilità anche di non trovare un’ intesa. Non trovarsi in accordo non preclude la possibilità di incontrarsi, anzi la incoraggia. Stare nella diversità di pensiero, senza minare il rispetto per l’altro, è una conquista che mi qualifica come persona. Anche laddove un’intesa è necessaria per forza di cose, se io non parto con questa forma di dialogo potrò solo arrivare ad imporre il mio pensiero e quindi ad una costrizione.
Nel momento in cui due persone hanno un’opinione diversa non necessariamente devono entrare in contrasto, ma la possibilità che questo succeda è presente, il voler aver ragione è una gabbia che isola. Marshall Rosemberg con la sua comunicazione non violenta ha teorizzato e praticato molto in questo senso e rimando alla sua lettura per chi voglia approfondire quanto vado scrivendo e acquisire nuovi strumenti.
Il dialogo vero tra due persone consiste nella capacità di accogliere l’opinione dell’altro, qualsiasi essa sia, a patto che non venga tramutata in azione senza il consenso dell’interlocutore (pensieri ed emozioni sono relativamente innocui se paragonati alle azioni) e nella capacità di affermarsi senza imporsi. La violenza non è solo il fallimento del riconoscimento dell’altro, ma lo è del proprio. Se non imparo a guardare il mio vissuto e cosa lo genera non sarà possibile farlo con coloro che ho di fronte e, se è vero che noi psicologi abbiamo una formazione specifica e professionale, è anche vero che non bisogna essere tali per guardare al proprio mondo emotivo ed esprimerlo in modo assertivo. Fabrizio De Andrè cantava “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.”
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