PROF PIETROPOLLI, ”L’AQUILA SALVA SE RICOSTRUITA DAI PIU …

L'AQUILA - Gli adolescenti vivono in una 'terra di mezzo', sono perduti, soli, incastrati fra la fine dell'infanzia e l'inizio dell'età adulta.

Ne è sicuro il professor Gustavo Charmet Pietropolli, psichiatra, docente di Psicologia dinamica all'Università di Milano dal 1985, autore di diversi studi sull'adolescenza.

L'ultimo libro di Pietropolli Charmet, "La paura di essere brutti. Gli adolescenti e il corpo" (Raffaello Cortina editore, 2013) analizza con lucida profondità le ragioni che portano molti adolescenti a sentirsi inadeguati rispetto al mondo e ai modelli che vengono loro imposti.

Inutile sottolineare quanto la questione adolescenziale sia particolarmente grave nelle realtà più difficili come L'Aquila, città terremotata rimasta ferma dopo il 6 aprile del 2009, oggi un luogo molto rischioso per i più giovani, i quali, come del resto gli anziani, hanno a che fare con una società che non li considera come meriterebbero e per questo, su livelli diversi, vivono malamente il mondo che li circonda senza accoglierli.

Professor Pietropolli Charmet, quando si è cominciato a parlare di adolescenza come un problema?

Sicuramente tra gli anni '60 e '70 del secolo scorso, quando irrompe sulla scena il mondo giovanile con diritto di parola, un mondo con i suoi canali di comunicazione come la musica, la protesta, la politica. I giovani per la prima volta si impongono come soggetto antropologico e ruolo sociale, da quel momento si comincia a guardare al mondo giovanile per studiarlo o criticarlo, o addirittura temerlo. Studiando e lasciando esprimere i giovani, la cultura degli adulti ha scoperto che c'erano dei punti di sofferenza, soprattutto quando, negli anni '70, la droga piomba sulla scena e, oltre a uccidere e a far male, agisce come un importante indicatore della sofferenza.

Lei dice che la droga è stata "grossolanamente interpretata non come una malattia mentale".

In Italia la legge l'ha messa fuori dalla psichiatria. Si arriva a essere tossicodipendenti da ragioni e da mondi più disparati, dal senso di colpa, all'umiliazione, alla provenienza da un determinato quartiere. Non è una categoria, ma un insieme di categorie e di ragioni che portano all'utilizzo massiccio della droga. E insieme alla tossicodipendenza è esploso l'Aids, una grande minaccia per il mondo giovanile.

E poi è 'sbocciata' la solitudine.

Dagli anni '90 si è cominciato a parlare di disagio al di là delle grandi manifestazioni che avevano segnato i '60 e i '70. Tocca alla malinconia, ai suicidi, o ai tentativi di suicidio. Da poco le scienze umane, psicologia, psichiatria, psicoanalisi, stanno studiando le caratteristiche mentali della sofferenza negli anni dell'adolescenza, gli psicanalisti stessi definivano l'adolescenza una 'cenerentola'. Da 30, 40 anni si sono aperti gli studi su questo mondo, ma mancano moltissimi servizi a favore di chi è adolescente. Per questo si trovano in una 'terra di mezzo'. I pediatri sono medici di famiglia che smettono di prendersi cura dei bambini quando diventano grandicelli, quindi si passa direttamente ai medici degli adulti, lasciando di fatto un deserto per chi sta crescendo.

Serve comprendere bene il mondo nel quale vivono gli adolescenti.

È interessante notare quanto la sofferenza dei ragazzi sia collegata ai cambiamenti socio-culturali. Dal conflitto 'edipico' dello scoppio delle contestazioni dei figli nei confronti dei padri e dell'autorità dei padri, si è passati pian piano a un altro tipo di sofferenza che ha a che fare con la necessità di essere belli e vincenti, nell'epoca del narcisismo e dell'apparire. Chi non lo è o chi pensa che per qualche caratteristica è fuori da questi schemi, deve fare i conti con l'imperativo sociale dell'esser giovani e belli a tutti i costi, del fare sesso, è la società delle ragazze magre e dei ragazzi 'palestrati'. Ai tempi di Sigmund Freud, la sofferenza delle ragazzine prendeva la strada dei comportamenti isterici, oggi invece viene messo in scena il disturbo della condotta alimentare. E i ragazzini, non più contestatori o soggetti anti-sociali, finiscono per dover fare i conti con la vergogna, rinchiudendosi nel mondo virtuale di Internet o manipolando violentemente il proprio corpo, con conseguenze tremende come il suicidio. Spesso ci sente grassi anche se non lo si è, questa è senza dubbio una 'dispercezione' del proprio corpo. I valori socio-culturali dominanti impongono determinati modelli, chi è più debole soggettivamente, purtroppo, cade. Non si tratta di generazioni intere, ma di frange di generazioni che hanno bisogno di aiuto.

Col senno di poi, era inevitabile questa 'deriva'?

Direi di sì. Con la crisi dell'autorità del padre, sia fisico che simbolico, quindi la protesta contro la legge e lo Stato, si è andati incontro a valori materni. In Italia si fanno pochissimi figli, con un'infanzia molto protetta, tutelata, in pratica il figlio è il 'cucciolo d'oro' che domina la situazione. In realtà si è molto lottato affinché i giovani avessero una vita sessuale e sociale migliore rispetto al passato e potessero usufruire della mobilità territoriale e di una relazione meno dominante con la scuola, ma c'è un prezzo da pagare. Questa spinta verso la realizzazione di sé stessi, verso il successo, è il prezzo da pagare. Siamo la società dell'apparire globalizzato, quindi le sembianze sono decisive. Ecco perché le vittime si sentono brutte.

Cosa può fare la scuola per migliorare la condizione dei giovani?

La scuola ha sempre invitato i ragazzi a lasciare il corpo fuori dall'aula, corpo sia fisico che sociale, ma qualcosa si può fare, come aiutarli a studiare i cambiamenti dei modelli socio-culturali nell'ambito storico, cioè a far capire loro la società in cui vivono. Purtroppo, la scuola come istituzione è troppo debole rispetto alle grandi corporazioni che guidano la società dei consumi, con le istituzioni ormai scomparse. Il nonno, quando c'è, può sostituire la figura del padre, ormai quasi inesistente, ma la situazione è praticamente compromessa. Il quadro è molto chiaro e molto complesso allo stesso tempo.

Secondo lei, esiste ancora una differenza fra chi cresce in città e chi in campagna?

Per molti aspetti sì. In una grande città ci si divide e ci si riconosce per l'appartenenza ai quartieri. Ciò che colpisce, però, è la totale globalizzazione degli adolescenti, che sono i soggetti più globalizzati della società, si somigliano per scelte culturali, commerciali, vivendo per metà in un mondo virtuale. Di contro, nessun altro soggetto è così sensibile al proprio quartiere, famiglia, o 'tribù' reale o virtuale. Qui si creano il vuoto e l'incomprensione.

In una città come L'Aquila, divorata dai problemi che riguardano giovani e anziani, le categorie più indifese, di cosa c'è bisogno per invertire la rotta?

Se parliamo di adolescenti e non di giovani adulti, è chiaro che si deve contare moltissimo sulla scuola e sulle forme migliori di aggregazione al di fuori delle mura scolastiche, questo vale anche per il mondo occidentale. Tocca a loro, agli adolescenti, creare passo passo un nuovo modello di sviluppo, quindi per L'Aquila possono fare questo per creare una nuova città, un nuovo modello di ricostruzione, di società, di lavoro. Se ci si riuscirà, un mondo migliore, come una città migliore, non saranno più utopie.

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