Perché una mamma e un papà sono indispensabili per ogni bimbo – UCCR

La docente di psicologia sociale e psicologia dell’adozione, dell’affido e dell’enrichment familiare, Raffaella Iafrate, assieme allo psicologo Giancarlo Tamanza, hanno scritto un interessante articolo per «Vita e Pensiero», bimestrale culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ripreso integralmente da “La Bussola Quotidiana”Si sono soffermati in particolare sull‘importanza dell’avere entrambi i genitori, di sesso opposto. Dovrebbe essere una cosa normale e condivisa, eppure -dicono- «in un clima di individualismo e di relativismo, anche tale tema è ampiamente messo in questione». In particolare, la «forte instabilità coniugale, con conseguente diffusione di famiglie monogenitoriali, l’esperienza della genitorialità sempre più vissuta come una scelta e un diritto individuale, la diffusione di forme familiari alternative e il dibattito sui diritti delle coppie omosessuali mettono in discussione l’affermazione da sempre condivisa secondo la quale “un bambino per crescere ha bisogno di un papà e di una mamma”».

Si chiedono allora: perché due genitori? E perché diversi?
Innanzitutto, occorre osservare che «tutta la letteratura psicologica metta da sempre in evidenza il ruolo differenziale delle due figure genitoriali, mostrando come madri e padri giochino ruoli e funzioni diversi e complementari nell’educazione dei figli e nella trasmissione di competenze e valori». Per crescere, «un individuo ha bisogno di fare esperienza della differenza, ossia di essere in grado di mettersi in rapporto, confrontarsi e imparare dall’altro, la non omologabilità delle funzioni del maschile e del femminile appare decisiva».  E’ necessaria una «compresenza di un “codice affettivo materno”, improntato alla cura, alla protezione e all’accoglienza incondizionata e di un “codice etico paterno”, espresso dalla responsabilità, dalla norma, dalla spinta emancipativa», fondamentali «per garantire un’equilibrata evoluzione dell’identità personale». Infiniti sono gli studio in cui si sottolinea l’importanza del legame di attaccamento con la madre, così come, «soprattutto negli studi più recenti, è stata enfatizzata la centralità della funzione paterna man mano che il figlio cresce». Numerosi gli studi che attestano anche come «in situazioni familiari peculiari caratterizzate dall’assenza di un genitore, o dalla carenza di una delle due funzioni genitoriali (specie con l’impallidimento della figura paterna, tipico del nostro contesto fondamentalmente “matrifocale”) si possano riscontrare non poche difficoltà, anche a lungo termine, per i figli».

I due psicologi mettono le mai avanti descrivono tre possibili obiezioni:
1)  L’esperienza positiva di numerose famiglie in cui è venuta a mancare una figura genitoriale testimonia che, pur nella fatica, i figli possono crescere sani e sereni anche con la sola madre o il solo padre.
2) La funzione “differenziante” può essere assunta anche da altre figure di riferimento, nonni, amici, reti di sostegno esterne, così come l’esercizio delle funzioni educative può essere condiviso con altri che non siano l’altro genitore.
3) Le funzioni materna e paterna sono sempre più spesso interscambiabili: madri che esercitano alcuni aspetti della funzione paterna e viceversa padri che svolgono parte della funzione materna.

Per rispondere a queste obiezioni, occorre però capovolgere la prospettiva dal punto di vista dei genitori a quello del figlio, dato che «le differenze di genere e di generazione sono inscritte nella procreazione e sono metafora della vita psichica». Solo allora ci si rende conto che «il figlio è sempre generato da due, e da due “diversi”, da un maschile e da un femminile, da due stirpi familiari, da due storie intergenerazionali e sociali. La differenza (di genere, di stirpe, di storia) non solo consente la procreazione, ma permette anche che nel tempo il figlio diventi a propria volta generativo da più punti di vista». Così come nasce da due “diversi”, così «il figlio, per strutturare la propria identità personale, ha bisogno di riconoscersi nel suo punto di origine che è sempre frutto di uno scambio tra quel materno e quel paterno che lo hanno generato e che consentirà di inserirsi in una storia intergenerazionale e sociale» che «gli permetterà di realizzare pienamente se stesso e la sua umanità»Senza un’origine non c’è identità, tengono a precisare, e l’origine «non può che riguardare sia una madre sia un padre». La donna mette al mondo, ma non genera da sola: «perché il processo della nascita sia compiuto occorre spostarsi da un piano puramente biologico a uno simbolico-sociale che il riconoscimento paterno e l’assegnazione del “nome del padre” consente di introdurre». È fondamentale che, anche nella crescita, «nella relazione madre-figlio/a ci sia il riferimento a un terzo, il padre appunto. È il padre che istituisce la differenza/ differenziazione dall’originaria simbiosi con la madre (come ha sempre affermato la psicoanalisi) e, nominandolo, “taglia”, “separa” “de-finisce” il figlio sottraendolo dallo stato di onnipotenza e introducendo il senso del limite e contemporaneamente il senso e la direzione della sua crescita, favorendo così la sua piena umanizzazione».

Le ricerche sociologiche e psicosociali hanno da tempo messo in evidenza alcuni caratteri tipici della genitorialità contemporanea, che deriva poi da una mutazione culturale che a sua volta ha trasformato la strutturazione dell’identità personale, «segnata da un’accresciuta e ormai prevalente centratura sulla ricerca dell’affermazione individualistica del Sé e sulla prevalenza di istanze narcisistiche che inducono a una ricerca immediata e superficiale della soddisfazione personale». Questo ha due ripercussioni gravi sulle forme della genitorialità:
1) Figlio perfetto: ovvero l’accesso alla genitorialità risulta essere sempre più contrassegnato «da tratti di intensa idealizzazione e da elevatissime aspettative di conferma del proprio valore personale, tanto da rendere poco tollerabile e riconoscibile l’irriducibile scarto che l’unicità della realtà personale del figlio porta con sé». In parole semplici, «è sempre più diffuso il bisogno che il figlio sia conforme non solo all’immagine del “figlio desiderato”, ma che esso sostenga e confermi il senso che il diventare genitori assume nell’economia psichica del padre e della madre». Questo porta al voler vedere legittimato il “diritto alla genitorialità”, «inteso non più come possibilità o disponibilità dell’adulto ad accogliere un figlio, ma come opzione del tutto incondizionata e soggetta unicamente alla libera scelta dell’adulto». Questo, al posto che produrre un rafforzamento della posizione del genitore rispetto al figlio, «comporta in realtà anche un suo indebolimento, nel senso che amplifica gli aspetti di dipendenza del genitore nei confronti del figlio e riduce la sua capacità di porsi come guida autorevole, capace di tollerare le inevitabili frustrazioni e i conflitti che l’emergere dell’autentica e originaria realtà del figlio produce».
2)  Qualità dei legami:  essi sono «meno riconosciuti nella loro valenza di significazione e di vincolo, poiché ciò è avvertito come un ostacolo o un limite all’affermazione delle proprie istanze individuali», si nota un rafforzamento di «una visione sostanzialmente riduzionistica della realtà genitoriale, laddove continua ad attribuire un rilievo pressoché esclusivo al determinismo intrapsichico o, al più, al “modellamento” determinatosi nell’originaria interazione diadica con le figure di attaccamento». Invece, spiegano i due ricercatori, la genitorialità non può che «dispiegarsi in un “gioco a tre” e il fondamento dell’identità del figlio, in quanto figlio, non può che risolversi in un’unica e specifica collocazione spazio-temporale, cioè in un posto specifico all’interno della storia e della geografia familiare», in altre parole: «potersi misurare mentalmente con due genitori, nella loro essenziale unicità, e soprattutto potersi identificare e riconoscere nel legame, come elemento “terzo”, eccedente gli individui, è una condizione necessaria per parametrarsi in modo congruo e realistico con le proprie coordinate di origine», per dare «un fondamento reale e non immaginario alla propria identità».

Gli psicologici concludono sostenendo che a fronte di una cultura spesso spaventata dai limiti e dal rifiuto della differenza, centrata su valori individualistici e poco interessata a dare senso e a indicare obiettivi alle esperienze di vita delle persone, «la famiglia, con le sue categorie di paternità, maternità, filiazione, propone dunque la sua sfida presentandosi come il luogo per eccellenza dell’incontro-relazione tra le differenze fondative dell’umano (quelle tra genere, generazione e stirpi) e dunque orientato a un fine generativo, com’è propria dell’incontro tra differenze, sia sul piano biologico, sia su quello culturale». Per questo «la necessità di riconoscersi in un padre e in una madre è un’istanza originaria dell’umano e, al di là della presenza/assenza fisica delle due figure, il diritto inalienabile di chi è figlio, ciò che non può essere censurato e che pretende di essere rispettato è l’accessibilità almeno simbolica alla propria origine, il potersi riconoscere in un’appartenenza che da sempre e per sempre lo definirà come persona pienamente umana».

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