Perchè l’avversario non è il mio peggior nemico

Intraprendere un percorso di preparazione mentale nello sport non è difficile: ci si affida ad un esperto, si seguono le indicazioni e senza accorgersi ci si ritrova già all’opera. Non è nemmeno complicato, da un punto di vista pratico, effettuare esercizi di preparazione mentale nello sport: essi possono apparire inusuali, ma di certo, con le giuste tarature e personalizzazioni, ognuno è in grado di approcciarvisi. Tutto sembra funzionare bene, poi si arriva alla tanto agognata prima prova sul campo ed ecco che… puff!

Non succede sempre, ma quando accade tutte le buone azioni intraprese in sede di preparazione vengono meno, la mente si appanna, non si crede più nelle proprie risorse e l’avversario diventa troppo forte.

C’è un errore di fondo, che però è anche uno dei fattori che fanno la differenza fra lo sportivo “buono” e l’atleta “eccellente”: è molto facile essere psicologicamente preparati nello sport quando la situazione in campo assume la piega che desideriamo, è difficile invece quando le cose non vanno per il verso giusto. Ma ovviamente la Psicologia dello Sport assume valore nel secondo caso.

E colui che fa la differenza in tutto ciò ha un nome: si chiama “Io”. Per quanto assurdo, molto spesso lo ignoriamo anche quando siamo “mental sport oriented”, cioè quando abbiamo deciso di impostare il nostro allenamento attraverso il quadrilatero della preparazione: tecnica – tattico strategica – fisica – mentale. Siamo proiettati verso il campo, verso l’avversario, vogliamo batterlo, mettiamo le sue foto per casa, dichiariamo le nostre intenzioni ripetutamente, osserviamo i nostri gesti atletici e li miglioriamo, facciamo un percorso strutturato e poi arriviamo lì in gara e ci rendiamo conto che… non ci conosciamo per niente! A fronte di una situazione “estrema” non reagiamo come vorremmo, non pensiamo come vorremmo, non siamo come vorremmo. Ciò avviene perché in prevalenza il ragionamento alla base è quello del “devo sconfiggere l’altro” e non pensiamo quasi mai all’idea che il nostro avversario ha invece intenzione di batterci e ce lo dimostra subito presentandosi: gioca contro di noi e vuole proprio superare il nostro “Io”. E’ in quel momento che si scopre la verità agro-dolce: in campo si hanno due avversari, sempre, si chiamano Io e Lui. L’obbiettivo minimo del mental training è quello di portare dalla propria parte almeno uno di quegli avversari: Io.

Quasi tutti i buoni sportivi frequentemente si giocano contro. Lottano in campo con se stessi, con la loro fiducia, sono condizionati da quello che succede nel confronto diretto e reagiscono in funzione dei risultati. Per carità, non siamo certo degli automi, è anche giusto che in base a quello che ci circonda si affronti il mondo con congruenza. Ma l’obbiettivo dell’atleta è quello di trovare sempre la migliore reazione possibile, quella che gli permette di ottenere la sua migliore prestazione possibile.

Immaginate la situazione in cui vi troviate ad affrontare il vostro rivale più temibile, quello che vi mette in crisi e che sapete essere più forte di voi, quello che non vorreste mai incontrare. Ora immaginate di poterlo incontrare disinteressandovi che lui sia più forte, non pensando all’idea che sia già scritto che vinca lui, non perché vi illudiate nel miracolo ma perché banalmente non è quella la modalità di pensiero che rappresenta la situazione che state per vivere. Vi presentate in campo, giocate, perdete o vincete e vi portate a casa un pezzo in più per costruire il puzzle della vostra crescita sportiva, sia che siate un veterano oppure un giovane di belle speranze. Non vorreste vivere sempre così lo sport? Se vi chiedessi con quale livello agonistico, con quale qualità e ardore riuscireste a giocare quel match che cosa rispondereste?

Per arrivare a giocare 1vs1 piuttosto che usare il desolante modello del 2vs0 ci sono diverse strade, la più pratica e attuabile consiste nell’abituarvi costantemente a vivere situazioni di difficoltà sportiva, ad allenare la vostra mente a gestire situazioni di estrema difficoltà (sportiva ovviamente). Sia ben chiaro, se non le avete a disposizione, create queste situazioni, ma createle per davvero: evitate quelle cose che si vedono ogni tanto in allenamento che molto spesso si riducono ad essere situazioni protette, non realmente stressanti, dove alla fine non vi importa veramente di sbagliare. Piuttosto chiamate il vostro avversario, proponetegli una sfida, chiedetegli di giocare come se volesse annientarvi. Senza accampare scuse, con voi stessi e tantomeno con lui in caso di sconfitta, dategli 10 metri di vantaggio, 10 punti, un set, un secondo di gap… Insomma, ostinatevi ad avere attorno complessità e nel caso a subire sconfitte “ingiuste” come se fossero reali. Siete fuori forma? Non chiedetegli di andarci piano, piuttosto potreste provocarlo “simpaticamente” a farsi sotto (solo se è un amico e se siete in ottimi rapporti). Subite le sue piccole rivincite e siate pronti per il giorno in cui ci saranno i match che contano!

Al di là di queste strategie operative, esistono anche delle azioni che richiedono un maggior impegno cognitivo/psicologico. Nel prossimo articolo introdurremo alcuni degli aspetti determinanti nella conoscenza del nostro “Io in gioco” su cui poter intervenire.

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Dott. Mauro Lucchetta – Psicologo dello Sport

Per domande o dubbi: mauro.lucchetta@psicologiafly.com oppure visitate il sito: www.psicologiafly.com

 

 

 

 

 

 

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