Perché la Merkel è brutta e cattiva. Un caso di psicologia keynesiana – Chicago

Dopo la settimana della spending review, quella trascorsa è stata la settimana dell’“austerity”.

In tutti i talk show si sono visti politici e opinionisti di ogni parte ringalluzziti dalla vittoria di Holland in Francia e dalla sconfitta della Merkel in Germania, gioiosi della eminente ribalta della linea anti-rigorista promossa dai socialisti francesi trionfanti e dell’ala massimalista dei socialdemocratici tedeschi che hanno battuto il partito della cancelliera nelle recenti elezioni regionali.

E così è andato di moda il coro: “basta con il rigore e l’austerity, si passi alla crescita”, partendo da una assunzione falsa (rigore=austerità) e traendone una conseguenza illogica ma comoda: crescita=aumento di spesa pubblica.

Se il rigore è fatto come in Italia per il 72% con inasprimento fiscale allora sì che provoca austerity, ma l’aumento delle tasse è l’alternativa a non tagliare la spesa. Il suo abbattimento, invece, ridurrebbe in modo strutturale il peso dello Stato sull’economia e nella vita di ogni cittadino promuovendo la crescita senza dover trascurare il rigore, senza il quale i mercati non comprerebbero più i nostri titoli con cui paghiamo proprio i servizi tanto demagogicamente difesi “contro” la non pervenuta politica dei tagli.

Eppure i sofisti della spesa pubblica ne propongono l’aumento. Però della spesa pubblica “buona”, sia ben chiaro, ci tengono a sottolineare, e poi suggeriscono un po’ di inflazione che non fa mai male: è utile a “rilassare” l’economia (così si espresso un docente dell’associazione Fonderia Oxford alla trasmissione Rapporto Carelli, ma anche a Oxford evidentemente c’è chi può permettersi di “rilassare” molto il cervello, nel vero senso della parola e tra poco sarà spiegato il perché). Più che stimolare la domanda, allora c’è bisogno di stimoli cognitivi per quanti, che prima ancora di essere keynesiani, sono semplicemente irresponsabili e intellettualmente pigri.

Prima la finanza e gli speculatori, poi gli evasori, adesso la Merkel: tutti nemici utili per spostare i problemi strutturali interni del nostro Paese su capri espiatori e continuare a non fare i conti con le proprie responsabilità.

Dopo l’inizio della crisi la finanza era stata il male assoluto che – secondo i più – l’aveva indubbiamente generata, mentre veniva ignorato il rapporto causale tra l’intervento della politica per abbassare artificiosamente i tassi d’interesse e la bolla speculativa. La crisi è diventata anche dei debiti sovrani e la colpa è stata data ai malefici e avidi speculatori, ma in pochi ne hanno voluto sapere che strumenti finanziari come i Cds sono fonte d’informazione negativa non condizionabile dal potere, e che i politici volessero eliminarli e non meglio regolamentarli, perché mostrano prontamente le sbagliate politiche finanziarie degli Stati.

Poi quest’anno sono tornati di gran moda gli evasori: pur di non mettere a dieta lo Stato anche il governo Monti, in continuità con gli esecutivi che lo hanno preceduto, ha ripreso un classico – l’evasore come causa della pressione fiscale: le tasse sono alte perché ci sono tanti che non le pagano, facciamoli pagare e vedrete che abbasseremo le tasse…dove sono finiti i 12 miliardi recuperati dall’evasione? Sorprendentemente in spesa corrente.

Oggi ci sono Angela Merkel e i tedeschi brutti e cattivi: si dice che manchino di solidarietà e che ignorino come si fa la crescita: ma forse chi ha ignorato come si fa a crescere è chi non cresce da ben prima della crisi globale e non chi ha l’economia europea più in crescita (a proposito, nel primo trimestre di quest’anno l’Italia ha registrato una crescita negativa del Pil pari al -0,8%, la Germania è cresciuta di un +0,8%, mentre l’eurozona è vicina a crescita zero con +0,02%).

Insomma ogni scusa è buona, specialmente se fa leva su sentimenti anti-mercatisti, per rendere auspicabile agli occhi dei più ingenui o più ideologizzati e a favore di chi ne ha interesse, il così detto “ritorno della politica e della supremazia dello Stato sui mercati”: l’ennesima scappatoia dalle responsabilità sia per i cittadini, che possono continuare a chiedere alla politica di risolvere ogni problema, sia per la politica, che ben contenta di ricevere l’incarico così non riconosce i propri errori e anzi riesce nonostante i fallimenti a ottenere più potere (che significa più burocrazia, più spesa pubblica, più tasse, meno libertà economica, meno crescita: proprio quello che serve!).

I keynesiani, o più in generale gli statalisti, trovano sempre un nemico o un escamotage pur di opporre resistenza alle riforme strutturali, che cambierebbero il modo di ognuno di lavorare e partecipare all’economia. Quanto all’inflazione, poi, è una tassa occulta e ingannevole che non serve a risolvere i problemi ma a nasconderli distorcendo il processo economico, e se Henry Hazlitt diceva che “L’inflazione è l’oppio dei popoli”, è proprio per la sua funzione “evasiva”.

Dunque, speculatori, evasori e tedeschi, in ultima analisi non sono in realtà nemici, ma alleati di un modo di pensare, elusivo e irresponsabile, che precede ma anche predispone a una ben precisa visione dell’economia, quella keynesiana.

In economia comportamentale si chiama “fallacia dell’autocompiacimento” (self-serving bias): mentre ci si ascrive subito i meriti dei successi, si tende a produrre valutazioni economiche mal calibrate quando le responsabilità dei fallimenti vengono scaricate sugli altri, si spiega quindi l’evidenza avversa attraverso cause del tutto indipendenti dal proprio controllo e si programmano le azioni future senza imparare dagli errori passati.

Quale se non la teoria keynesiana si presenta come la più invitante per non affrontare alla radice i problemi e per non abbandonare vizi e privilegi continuando a fare spesa pubblica e debito? A molti keynesiani piace dire che le cose sono sempre più “complesse” di come vengono presentate dai loro oppositori, e sono sempre pronti a fornire bazzecole confezionate in sofismi attraenti per tutti i gusti pur di adulare gruppi particolari e assecondare le inclinazioni più immediate e irresponsabili.

Purtroppo prima dell’”economia del mondo esterno” c’è quella della mente, ossia la propensione a economizzare i costi cognitivi dei ragionamenti, e quindi prima di economisti si è persone pensanti, ma in Italia forse lo siamo in modo inversamente proporzionale al debito e alla spesa pubblici che aumentano: una schiavitù volontaria verso lo Stato, padrone sempre più anche delle nostre menti e inibente per il nostro senso di responsabilità e per l’intraprendenza, a partire da quella cognitiva.

twitter @giacreali

21 maggio 2012

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