Onora il padre e la madre? Se hanno assegni coperti forse sì…

Il quarto dei dieci comandamenti recita “Onora il padre e la madre”. Una frase così farebbe tremare chiunque se si pensa ad un caso di parricidio come quello di Ferdinando Carretta oppure ad altri analoghi, come quello di Pietro Maso, entrambi rei confessi dei propri delitti. Il 4 agosto 1989 dopo aver impugnato una Walther calibro 6.35, avuta non si sa come, Ferdinando sparò ad entrambi i genitori e poi al fratello nella casa di Famiglia a Parma. Una volta nascosti i cadaveri nella discarica di Viarolo organizzò nei minimi dettagli la falsa partenza della famiglia per un luogo lontano e sconosciuto da tutti. I corpi delle vittime non verranno mai ritrovati, così come la pistola. Dopo il delitto intascò due assegni dalla Banca del Monte: uno da cinque milioni di lire grazie alla firma falsa del padre e un altro da un milione con la firma falsa del fratello. Depistate le indagini, fuggì a Londra mentre in Italia si diffuse la notizia della scomparsa della famiglia Carretta, di cui si immaginava inizialmente una fuga alle isole Barbados.

Nove anni più tardi, raggiunto dalle telecamere di “Chi l’ha visto”, Carretta sceglierà di confessare l’omicidio al giornalista Giuseppe Rinaldi. Dichiarerà, in quell’occasione, che non vi erano altri motivi validi dovuti al suo gesto se non intascare l’eredità e che nei giorni precedenti non c’erano stati litigi o gesti sbagliati e offensivi nei suoi confronti. Aggiunse infine che i giorni precedenti e in quello della strage, la sua condizione psicologia era quella di un folle, di un pazzo. Ferdinando fu ritenuto in seguito incapace di intendere dalla Corte d’Assise di Parma nel 1999 e venne rinchiuso nell’Opg di Castiglione delle Stiviere.

Nel 2004 ottenne la semilibertà e due anni dopo entrò in una comunità di recuperò a Forlì. Grazie ad un accordo con le zie, nel 2008 ottiene l’eredità e la casa in cui compì il delitto, venduta poi nel 2010 con un ricavato di 200.000 euro. Oggi vive a Forlì in un appartamento acquistato proprio con quella eredità macchiata di sangue. La decisione è stata presa dal magistrato di sorveglianza di Bologna che ha accolto la richiesta del suo legale, dopo aver constatato che la pericolosità sociale del soggetto è ormai attenuata. Ferdinando dovrà rispettare alcune prescrizioni: non allontanarsi dalla sua abitazione durante la notte ed essere seguito periodicamente da psichiatri ed educatori che ne verificheranno il reinserimento nella società. I suoi legali però stanno continuando a lavorare affinché queste restrizioni vengano revocate al più presto sebbene, in precedenza, i giudici avevano bocciato analoghe istanze di revoca della libertà vigilata presentate dalla difesa, anche in Cassazione.

“Dopo tanto tempo, ora voglio solo fare una vita tranquilla, pensare al futuro. Sto bene e vorrei solo essere dimenticato”, ha detto Carretta alla Gazzetta di Parma. “Ogni volta che si parla di ciò che è successo sto male, ogni volta che esce qualche notizia che mi riguarda sto male, voglio solo ricominciare a vivere”.

Ma come può verificarsi un simile avvenimento nella vita di una persona comune, tranquilla, che non ha mai mostrato segni di squilibrio? Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Antonietta Curci, docente di Psicologia Generale, Metodologia della Ricerca Psicologica e Psicologia della Testimonianza, Coordinatore del Master in Psicologia Giuridica e del Corso di Studi Magistrale in Psicologia Clinica dell’Università degli Studi di Bari.

Le cause che possono portare individui apparentemente ben adattati a commettere reati gravi come omicidi sono molteplici e occorre sempre contestualizzarle rispetto all’ambiente di vita, alle caratteristiche individuali dell’autore del reato e alle sue relazioni con la vittima. Nei casi di alcuni disturbi di personalità, quali si ritrovano ad esempio nei soggetti psicopatici, l’omicida può apparire persino molto competente dal punto di vista sociale e relazionale. Questi disturbi sono subdoli in quanto l’individuo nasconde una sostanziale incapacità di gestione delle reazioni emotive o può persino essere in grado di usare in modo strategico le proprie competenze relazionali per ingannare la vittima e manipolare le situazioni a suo favore. La conoscenza approfondita della storia del parricida e delle sue relazioni familiari sono delle chiavi di lettura importanti per la comprensione della genesi dell’atto criminale, anche se purtroppo tali ricostruzioni avvengono solo a posteriori dell’atto stesso.

Quale meccanismo si innesta nella psiche di un soggetto normale in una condizione come questa, in cui uccidere la famiglia sembra facile come bere un bicchier d’acqua?

Individuare una “rotellina” inceppata nella mente della persona cosiddetta normale che compie un parricidio è un’operazione che rischia di essere riduttiva se non ingenua o persino fuorviante. Come dicevo prima, spesso l’individuo che apparentemente ha un buon adattamento sociale può nascondere difficoltà importanti nella gestione dell’emotività propria o altrui e queste si traducono in un atto freddo, premeditato che serve a raggiungere lo scopo che l’individuo in quel momento giudica rilevante, più rilevante della vita di un suo familiare. Il processo che porta l’individuo a compiere l’azione rispecchia la logica di un processo finalizzato a realizzare uno scopo di dominio o persino di onnipotenza che culmina nell’omicidio della persona cara o del genitore.

Dopo che il parricida si è reso conto di quanto ha compiuto, una volta terminata la condanna, qual è la condizione psicologica con cui si ritrova a condividere la quotidianità? E’ in grado di ripetere ancora quel gesto atroce?

Quando non vi sia una patologia conclamata dove l’esame di realtà è alterato, è possibile che il parricida sperimenti emozioni morali collegate al senso di colpa o vergogna per l’azione commessa, al rimpianto fino ad una reazione depressiva legata al lutto e alla perdita. Tuttavia, nel caso di severi disturbi della personalità, l’elaborazione del vissuto potrebbe avvenire “a freddo”, nel senso che l’individuo si concentra più sulle implicazioni cognitive che emotive dell’atto compiuto e sulle conseguenze che l’atto avrà sul piano sociale o giuridico (es., rapporti con la famiglia, rapporti con la giustizia, nuova organizzazione della vita personale, lavorativa, affettiva dopo la reclusione ecc.). Ragionare sul rischio di recidiva spetta alle istituzioni penitenziarie e rieducative preposte all’analisi scientifica della personalità del recluso, considerati i fattori di rischio personale, sociale, relazionale e ambientale che, a seconda dei casi, riguardano ogni autore di reato.

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