Medioriente, la volontaria: Tra rifugiati Gaza in attesa dell’America

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Di Elena Fois

Torino, 5 ott. (LaPresse) - Silvia Becchis ha 22 anni, è laureata in Psicologia con una tesi sulla salute mentale dei minori rifugiati e quando racconta la sua esperienza al Gaza Camp di Amman, capitale della Giordania, lo fa con gli occhi di chi, forse, non si aspettava ciò che ha visto. Volontaria per l'associazione Ars, Silvia ha trascorso 10 giorni in un campo di profughi palestinesi, meno di un chilometro quadrato di terra e polvere in cui vivono 24mila persone, tra cui 800 bambini tra i 6 e i 12 anni. Una baraccopoli nata nel 1968 in piena emergenza esodo e dalla quale, racconta, "tutti vogliono andare via per tornare in Palestina".

La 22enne ha parlato della sua esperienza durante un incontro organizzato dall'associazione Idealmentre di Carmagnola, in provincia di Torino. A gestire il Gaza Camp è l'agenzia dell'Onu per i rifugiati palestinesi, l'Unrwa, che segue da vicino i servizi essenziali come la scuola, la salute e l'alimentazione dei profughi, basata prevalentemente sul riso e "sulle patatine nel sacchetto - ricorda Silvia sorridendo - anche se non sappiamo dove riescano a trovarle".

"Chi vive nel campo - spiega la volontaria - non ha la cittadinanza e per questo non può accedere agli stessi servizi dei giordani. Le tasse universitarie per gli stranieri costano il doppio, l'accesso alle cure mediche è limitato e ai rifugiati sono vietate moltissime professioni che prevedono un corso di studi più o meno lungo". Inevitabile, quindi per loro, vivere arrangiandosi, vendendo piccoli oggetti o pane all'interno del campo. A garantire la sopravvivenza ci pensa l'agenzia dell'Onu, che assegna tra uno o due dollari quotidiani a ciascun profugo e distribuisce settimanalmente pacchi di riso alle famiglie. I volontari delle associazioni o del servizio civile europeo fanno il resto, cercando di tenere impegnati i bambini dopo la scuola e di offrire alle donne spazi di condivisione.

Metà della popolazione della Giordania, racconta Silvia, è palestinese. "Dare la cittadinanza a tutti - racconta la volontaria - significherebbe creare lì un vero e proprio stato a maggioranza palestinese, mettendo in discussione gli equilibri interni sia da un punto di vista politico sia sociale". Il re giordano, Add Allah II, sta giocando un ruolo importante nella gestione della crisi mediorientale, ma trasformare tutti i profughi in cittadini giordani significherebbe rinunciare alla propria identità. "I rifugiati che sono lì dal 68 e le nuove generazioni - spiega Silvia - sono in attesa di qualcosa o di qualcuno che li riporti in Palestina. Molti di loro sono nati nel campo eppure sono convinti che prima o poi se ne andranno da lì". I bambini con cui ha lavorato durante il campo estivo "riportano la bandiera palestinese su ogni disegno", ma molti di loro "non sanno nemmeno dove si trova Gaza sulla cartina geografica".

Il Godot palestinese per molti rifugiati si chiama America: il grande continente occidentale nell'immaginazione di chi vive nel campo - e soprattutto dei più piccoli - riuscirà prima o poi a consegnare loro le chiavi di una terra finora inaccessibile. "Questo è curioso - racconta la volontaria - perché il ruolo degli Stati Uniti nella vicenda tra Israele e Palestina è chiaro, eppure per tanti rifugiati sarà l'America a salvarli da questa condizione e a riportarli a casa".

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