L’importante è dirsi: «Ce la farò»

Capacità terapeutica

L'importante è dirsi: «Ce la farò»

Dall’esperienza sui bambini leucemici di Monza agli studi in tutto il mondo. È il primo passo per affrontare le cure con serenità

MILANO - Superare una malattia che comporta una serie di sofferenze, di limitazioni, di frustrazioni, anche particolarmente elevate, può non solo conservare una struttura della personalità in crescita adeguata, ma addirittura migliorare la persona sotto certi aspetti. «Le difficoltà che possono subentrare anche dal punto di vista fisico, ma non soltanto, vengono affrontate con maggiore serenità e con maggiore sicurezza. Inoltre, si sviluppa una maggiore umanità e una maggiore capacità di comprendere la sofferenza degli altri». Marcello Cesa Bianchi, 86 anni, decano della psicologia clinica in Italia, sintetizza così le conclusioni a cui è giunto dopo aver studiato la casistica dei ragazzi guariti di Monza. La sua collaborazione con Giuseppe Masera e il gruppo dell’Oncoematologia pediatrica della città lombarda porta a inquadrare la resilienza all’interno del più ampio contesto della cosiddetta psicologia positiva. Quella che, come spiega Cesa Bianchi, «cerca di impostare l’intervento sul sano e sul malato tenendo conto delle potenzialità positive, considerando che valorizzarle può aiutare a porre la persona globalmente in una situazione tale da affrontare meglio anche le difficoltà e le sofferenze».

PSICOLOGIA POSITIVA - Come spesso accade nel nostro Paese i "particolarismi" hanno ostacolato lo sviluppo della resilienza e della psicologia positiva all’interno di un sistema strutturato. Così esiste un Osservatorio internazionale sulla resilienza di cui fanno parte anche i nostri psicologi, ma non ancora associazioni scientifiche italiane. Va meglio per la psicologia positiva, dove sono attive associazioni scientifiche sia a livello internazionale (International Positive Psychology Association) che nostrano (Società Italiana di Psicologia Positiva). «Sono tornata dal Congresso mondiale sulla resilienza con la consapevolezza che in Italia abbiamo fatto tanto, sia nella ricerca che sul campo. Molto più che all’estero — sottolinea la psicologa Elena Malaguti —. Non abbiamo però avuto la capacità di costruire anagrafi della ricerca, per cui certi dati li perdiamo. Non siamo indietro, solo non ci dotiamo dello strumento giusto». La "scuola lombarda" di psicologia positiva, ad esempio, ha sviluppato interventi basati sui processi cognitivi di esperienza di flow, o esperienza ottimale, e di convinzione di efficacia.«L’esperienza ottimale è una situazione di elevata concentrazione e immersione in un’attività — spiega la psicologa Antonella Delle Fave —. Quindi nell’esperienza ottimale una persona è totalmente presa da quello che fa, immersa a tal punto nell’attività che tutto il resto diventa marginale in quel momento. Concentrata, ha delle ottime performance e difatti l’esperienza ottimale viene molto usata nel training degli atleti e anche dei musicisti, soprattutto i concertisti, persone esposte a situazioni in cui devono ottenere alte performance».

CONVINZIONI DI EFFICACIA - Questo stato mentale in cui la persona è completamente assorbita da un’attività, può essere dunque sfruttato anche a fini terapeutici. «Il nostro gruppo di ricerca si è dedicato a questo tema per 25 anni — aggiunge —. Abbiamo verificato, in culture diverse, in contesti diversi, in pazienti con diverse condizioni di salute, che l’esperienza ottimale è comunque presente nella vita quotidiana. Abbiamo lavorato con paraplegici, tetraplegici, cerebrolesi, pazienti con le patologie più gravi: abbiamo sempre trovato la loro capacità di individuare opportunità di esperienza ottimali in varie attività della vita quotidiana». Un altro esempio di lavoro di potenziamento di certe caratteristiche di resilienza è rappresentato dalle cosiddette convinzioni di efficacia, ovvero le percezioni di "sapere di saper fare" qualcosa. Patrizia Steca insegna Psicologia della personalità e Psicologia della motivazione all’Università di Milano Bicocca e sta portando avanti con alcune cardiologie italiane una serie di studi sui malati cardiovascolari. «Con scale di valutazione da noi sviluppate con metodologie scientifiche — racconta — abbiamo misurato le convinzioni che i pazienti hanno di essere in grado di portare avanti adeguatamente una serie di attività legate alla gestione della loro patologia, come ad esempio il riconoscimento dei sintomi, il regime alimentare da seguire, il programma di attività fisica, sapere quando è il caso di contattare il medico».

RECIDIVE CARDIOVASCOLARI - Una ricerca in particolare, che ha coinvolto 116 pazienti, ha indagato la possibile relazione tra percezioni della malattia, convinzioni di efficacia e programmi di riabilitazione. A dispetto di progetti riabilitativi molto articolati, infatti, le recidive cardiovascolari sono la principale fonte di spesa sanitaria in ambito cardiologico. Perché? «Evidentemente c’è qualcosa che non funziona — risponde la psicologa —. Uno di questi aspetti è che, benché i pazienti vadano a casa con parecchie informazioni dopo le cure in ospedale, spesso ne hanno capito una percentuale molto limitata. E inoltre non si sentono capaci di fare quanto viene loro richiesto. Così abbiamo confrontato pazienti che hanno iniziato e terminato un ciclo di riabilitazione cardiovascolare, cioè persone che almeno per un mese vanno tutti i giorni in day hospital e fanno tutta una serie di attività. Ebbene alla fine le loro convinzioni di efficacia diminuiscono invece di aumentare. Cioè, più si rendono conto di quanto sia difficile e più si sentono incapaci. E questo dipende almeno in parte dalla mancanza di un lavoro mirato sulle risorse psicologiche dei pazienti». Un altro studio su 75 malati ha invece cercato di capire se la depressione causata dalla malattia può essere in qualche modo contrastata dalle convinzioni di efficacia. «La severità della patologia ha come è noto un impatto negativo sulla depressione dei pazienti, — spiega Patrizia Steca — e questo a sua volta, ha un impatto su nuovi eventi cardiovascolari. Questo impatto negativo viene condizionato dalle convinzioni di saper fare dei pazienti: in quelli che si sentono in grado di fare, la relazione tra severità della patologia e depressione è pari a zero. E questo è straordinario perché ci indica dove bisogna lavorare per migliorare la situazione».

STUDIO PILOTA - Alla ricerca di indici di resilienza è dedicato anche lo studio pilota che la psicologa Elena Malaguti sta conducendo su tutti i minori (179) della provincia di Rimini che sono in affido famigliare e sui loro genitori d’origine. «Ho considerato un campione relativamente piccolo, perché mi permette di poterlo esplorare nei suoi diversi aspetti e in una città molto grande non avrei potuto farlo. Ricerco eventuali indicatori di resilienza nei bambini che sono stati tolti dalla famiglia per vari problemi e messi o in comunità socio-educative o in famiglie d’accoglienza, quindi quelle coppie genitoriali che di solito hanno figli loro naturali che decidono di accogliere, o in comunità a volte più di natura terapeutica. Indago anche sui tutori di resilienza, perché un aspetto fondamentale della costruzione della resilienza sono figure adulte o pari che, in presenza di condizioni di vulnerabilità possono promuovere processi di resilienza. Possono essere o professionisti, cioè psicologi, educatori, assistenti sociali, medici, o naturali come vicini di casa, compagni, amici». Il progetto, partito nel dicembre scorso, dovrebbe durare tre anni. Ma, per ora, è finanziato solo per uno.

Ruggiero Corcella18 giugno 2012 | 9:14© RIPRODUZIONE RISERVATA

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