L’illusione di un’etichetta diagnostica

È dovere di chi si occupa di fare diagnosi di accertarsi che queste non comportino più danni di quanti potrebbero prevenirne. Si corre il rischio che il calore umano dei professionisti scompaia dietro un codice di Angela Dassisti

Di recente qualcuno che conosco e stimo molto ha divulgato la vicenda di un giovane ragazzo seguito in terapia per difficoltà cognitive e dell’amarezza che ha provato nel momento in cui, il suo disturbo, è stato etichettato come un «ritardo mentale di grado lieve». Sono vicende che colpiscono, soprattutto se avvengono nonostante la grande attenzione legislativa, medica e umana che sottende l’approvazione di leggi specifiche e molto dettagliate sulle difficoltà fisiche e mentali della popolazione.

Negli ultimi anni è stato fatto davvero tanto per promuovere la conoscenza delle difficoltà scolastiche nei bambini e nei ragazzi, laddove buona parte della popolazione ha assunto nell’uso comune termini come «dislessia», «autismo» o «disturbi attentivi». Ogni struttura che si occupi di valutazione ed intervento, inoltre, aderisce da tempo al modello bio-psico-sociale, come suggerito dall’organizzazione mondiale della sanità e dovrebbe redigere una diagnosi sulla base di diversi fattori (ambientali, sociali, psicologici, fisici) e non solo prendendo come punto di riferimento un mero punteggio statistico per il quoziente intellettivo.

Da un lato si staglia il mondo degli adulti per i quali etichette come Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA) o Disturbo da Deficit dell’attenzione e dell’Iperattività (ADHD) sono più conosciute, meno temute e talvolta auspicate, per poter aiutare quei ragazzi che ne hanno bisogno, dall’altra abbiamo le famiglie e i ragazzi che soffrono al pensiero di essere diversi dagli altri, come se il loro cervello non funzionasse bene: «Ma allora sono scemo!», o che si difendono in modo eccessivamente svalutante «Tanto a che serve?».
Eppure il mondo scientifico e accademico mostrano grande attenzione alla sensibilità del paziente, alla collaborazione e anche alla possibilità di offrire loro prospettive future, che non si esauriscano con la scuola dell’obbligo o con il diploma, ma mirino a raggiungere traguardi alti, fornendo loro la possibilità di realizzarsi, da adulti, come persone soddisfatte di sé stesse.

Ma allora cosa sta succedendo? Come mai, nonostante sia stata approvata la tanto auspicata legge che prevede l’introduzione nel mondo della scuola di misure compensative che adeguano il modello di insegnamento scolastico alle esigenze che sono proprie dell’alunno questo non sembra renderlo più forte e consapevole dei propri mezzi? Come mai i ragazzi che utilizzano dette misure compensative, che spettano loro di diritto, in alcuni casi provano vergogna? Come possiamo noi psicologi ed insegnanti fornire loro degli strumenti affinché crescano dal punto di vista culturale ed emotivo e che al tempo stesso non si vedano e si sentano, rispetto agli altri compagni di scuola, esiliati dietro un freddo quadro diagnostico senza vedere la loro sofferenza ed il loro smarrimento? Talvolta questi ragazzi ricevono la prima diagnosi nel pieno dell’adolescenza e, dunque, dobbiamo prestare molta attenzione a quali conseguenze questo potrà avere nella loro vita futura!

Se la famiglia si mette in gioco, se il ragazzo stesso si mette in gioco chiedendo aiuto al medico o allo psicologo è dovere di chi si occupa di fare la diagnosi di accertarsi che queste non comportino più danni di quanti potrebbero prevenirne. I risultati andrebbero analizzati, compresi, spiegati gradualmente a coloro che verranno inevitabilmente cambiati dalla diagnosi. Pensare e spiegare nelle scuole che quei ragazzi non sono disturbati, ma hanno un disturbo che li caratterizza, come ciascuno di noi ha dei propri tratti fisici e caratteriali distintivi.

Sarebbe analogamente corretto, da un punto di vista formale e diagnostico, fornire la diagnosi rendendo più comprensibili le motivazioni di un risultato, spiegando le caratteristiche di un profilo, attualizzando nella pratica della loro vita i campi in cui le difficoltà riscontrate potrebbero renderli vulnerabili. Questo richiede tempo, cuore, passione e compassione. Se noi professionisti del settore pensassimo di dare la medesima notizia a qualcuno che ci è caro, scopriremmo che, probabilmente, non riusciremmo a mantenere la stessa freddezza o indifferenza. Allora, come mai in alcuni casi tutto il calore umano e l’empatia delle figure professionali scompare dietro un codice, senza riflettere sul dolore e sulle ferite che recherà chi lo riceve?

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