Le perversioni psicologiche dell’economia moderna: Luigi Zoja ne …

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Consumi | Economia ecologica | Energia

Individualismo radicale, acquistismo ed accorciamento dell'orizzonte temporale: un'intervista al noto psicanalista

[ 23 marzo 2012 ]


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Luca Aterini

Discipline come la neuroeconomia ci hanno confermato come il razionale homo oeconomicus sia in realtà solo una favola; nel mondo della finanza speculativa la logica cerca di sopperire in qualche modo ai "deficit emozionali" dei traders, con risultati alquanto discutibili; il marketing forgia i bisogni dei consumatori.

Il nesso che lega economia e psicologia è sottile, spesso nascosto al senso comune, ma determinante. Per indagare più in profondità questo legame, greenreport.it ha contattato in Argentina Luigi Zoja, psicanalista di fama internazionale (laureato in economia alla Bocconi) attualmente in territorio sudamericano per una serie di conferenze.

La relazione tra economia e psicologia è profonda: come la giudica?

«La relazione che collega psicologia ed economia è certamente profonda, ma contemporaneamente delicatissima. Solo per fare un esempio, quanto saranno costate all'Italia in termini di difficoltà di rifinanziamento del debito pubblico le gaffe dell'ex premier Berlusconi, e la relativa immagine di ritorno sull'affidabilità del nostro Paese? D'altronde, dipendiamo ormai da capitali immensi, che in un secondo si spostano grazie ad un click. Siamo soggetti alla cosiddetta fiducia dei mercati.

Un altro ambito dove si esplicita la relazione profonda tra economia e psicologia ruota poi attorno al tema delle tasse. Sull'argomento sto giusto scrivendo il capitolo di un mio prossimo libro, dove viene affrontata la partecipazione alle spese collettive come la degenerazione di un dono che non sentiamo più; eppure, non solo l'economia astratta di derivazione ottocentesca, ma anche la paleoantropologia e le neuroscienze (dalla scoperta dei neuroni specchio in poi) ci fanno osservare come l'uomo debba conservare una dimensione sociale, siamo programmati per questo e ci sentiamo meglio se quel che facciamo si fonda sulla collaborazione. Non è dunque solo una fantasia dei certi pensatori più "liberal", ed ecco perché su questo tema - profondamente psicologico - occorrono più lealtà e approfondimenti, sia sa parte del pubblico che dei privati cittadini».

Quasi dieci anni fa ha visto la luce il suo libro "Storia dell'arroganza. Psicologia e limiti dello sviluppo", edito da Moretti Vitali. Da allora ritiene sia cambiato qualcosa nel comportamento sociale legato a quest'arroganza umana, quella della crescita economica indefinita, che cozza con la definizione stessa di sostenibilità?

«In alcune cose sono avvenuti miglioramenti, ad esempio all'interno dell'Unione europea (che, sebbene ce ne lamentiamo, rimane quasi un paradiso rispetto al resto). Malgrado le difficoltà immense, dalle urgenze di stampo economico al ritorno di sentimenti nazionalisti, sotto alcuni aspetti c'è stato un progresso - come nel caso della promozione dell'uso delle energie rinnovabili. Ci sono state conferme del fatto che la tecnologia può affrontare i problemi ecologici esistenti, e sta progredendo in questo senso.

Dall'altra parte, rimane un deficit nell'ambito degli accordi internazionali circa la sostenibilità dello sviluppo, con resistenze che provengono soprattutto da parte dei paesi emergenti. Sono ostacoli prevedibili, d'altronde, visto che i paesi sviluppati hanno avuto finora libertà di crescere ed inquinare. Anche nei paesi in via di sviluppo però si fanno avanti esperienze positive; nel corso della mia recente visita in Brasile ho avuto modo di conoscere personalmente il brasiliano Leonardo Boff, "teologo laico" di fama internazionale che dall'impegno sociale e politico è passato sempre più a quello ecologista, costruendo quasi una mitologia della madre terra e avvicinandosi al pensiero junghiano e confermando così una volta di più lo stretto rapporto della psicologia con i temi economici ed ecologici».

"Paranoia. La follia che fa la storia" è il titolo di un suo recente volume, edito da Bollati Boringhieri. L'ostinata volontà di insistere su di un modello di sviluppo che si fonda sul fenomeno del consumismo/acquistismo potrebbe esser anch'essa classificata come una forma di paranoia?

«Personalmente, non sono molto ottimista circa l'essere umano medio. In "Paranoia" notavo come, osservando campioni statisticamente significativi all'interno di molteplici popolazioni, rimanga pressoché costante il dato delle persone che hanno tendenze negazioniste, in una percentuale vicina all'80% del totale. L'essere umano tende a non essere critico se gli si offrono paradigmi costruiti su degli ordini imperativi, narrazioni della realtà che gli evitano di dover pensare, e gli esperimenti di psicologia sociale portati avanti da Stanley Milgram - per non citare l'esperienza drammatica del nazismo - ne sono una prova. Ecco che l'inconscio collettivo si collega in maniera distorta con quello individuale.

Parlare di paranoia, in fondo, è parlare di quella sensazione di "sospetto" che per l'essere umano è naturale portare dentro di sé, ma se e quando non se ne riconosce il meccanismo mentale, questa si manifesta in maniera malata. Per tornare a noi, c'è un negazionismo diffuso perché siamo tutti un po' malati,  vivendo tutti di diverse polarità - in primis polarità temporali della nostra attenzione temporale, divisa tra il godimento immediato e il progettarsi nel tempo».

Come influisce la struttura del mondo contemporaneo nella formazione e negli sviluppi di queste polarità?

«Da un lato ci troviamo ad essere progressivamente più razionali ed informati rispetto al passato, dall'altro siamo immersi in un mondo che cambia continuamente, e l'eccesso di informazioni e della complessità degli stimoli ci fa abbreviare sempre più il nostro orizzonte temporale, e questo è evidente anche nella preferenza in economia per gli investimenti e le rendite a breve termine. Tendiamo sempre più a preoccuparci dell'immediato, e la paura, l'insicurezza dovuta alla globalizzazione ci tribalizza, e tendiamo a ripiegarci su noi stessi e su cosa ci avviene strettamente attorno. Siamo spaventati da questi fenomeni, uno su tutti quello dell'immigrazione, ed è anche per questo - come riporta un recente sondaggio de Le Monde - che il 33% degli operai francesi ha spostato le sue intenzioni di voto verso il fronte nazionale, atteggiamento analogo a quelli di alcuni operai italiani che prima votavano comunista adesso votano la Lega.

Anche per quanto riguarda le tematiche ecologiste è evidente questa dicotomia: sebbene la degenerazione dell'ambiente sia più facilmente osservabile e prevedibile rispetto al passato,  abbiamo difficoltà a staccarci dalle considerazioni di un agire volto al breve o brevissimo periodo. È una reazione paranoica, semplicistica, ma comprensibile: è necessario recuperare un po' d'equilibrio».

La dittatura del tempo presente va di pari passo con quella delle pressioni del flash trading e della finanza speculativa, che si scontrano (uscendo solitamente vincenti) coi tempi più dilatati della democrazia. Come immagina possibile riappropriarsi di un "tempo lungo", quello proprio della decisione democratica?

«La mia professione si limita a quella di psicanalista: non sono un guru, e non ambisco affatto a diventarlo. Il poco che posso osservare in merito è che bisogna favorire quella tendenza già presente, nell'Occidente, a organizzare dibattiti in merito - come quello che, in piccolo, si terrà a maggio a Pistoia (il festival "Dialoghi sull'uomo, ndr) ed al quale parteciperò anche io - a favorire l'editoria di stampo critico, a promuovere e diffondere la riflessione in merito. È l'unica cosa che posso dire e l'unica possibilità che vedo. Questo bisogno di una visione critica si collega poi a quello, evidente, di un ritorno a relazioni interpersonali più umane, fisiche... un ritrovo ad un festival non è un incontro solamente virtuale. È un bisogno sentito dalla nuova generazione critica di giovani, che tra l'altro reputo più profonda e più numerosa della vecchia: quella della mia generazione non era composta poi da così tanti elementi, e spesso vi si trovava una sorta di fondamentalismo, o poca capacità d'introspezione».

Le difficoltà attuali per lo stato di diritto di contenere l'esuberanza di una finanza sempre più invadente mi fanno venire a mente la descrizione che Primo Levi - nel capitolo dal significativo titolo "Al di qua del bene e del male", del suo "Se questo è un uomo" - fa degli scambi economici nella "Borsa" all'interno del lager. L'impressione che se ne ricava è assai triste, perché - dove non c'era alcuno stato di diritto - ben poco sopravviveva «del nostro comune mondo morale».

«L'economia del lager descritta da Levi riporta di un'esperienza estrema. Piuttosto, una disumanizzazione notevole ma comune è diffusa nell'economia ipertecnologica di oggi, e non solo nel modello call-center , con un lavoro completamente spersonalizzato e meccanizzato, ma anche in alcuni lavori da colletti bianchi. In generale, non solo l'ipertecnologia, ma anche la fortissima rotazione del personale a causa di assunzioni con limiti temporali sempre più brevi portano ad una disumanizzazione dell'ambiente lavorativo.

Non è però possibile addossare la colpa di tutto questo ai datori di lavoro, perché l'economia odierna pretende servizi flessibili ed agili... con la liberalizzazione e globalizzazione del lavoro, se un datore tratta i lavoratori molto meglio degli altri, probabilmente dagli altri si troverà schiacciato. Un problema tragico è sicuramente quello della disoccupazione giovanile, dove dai milleuristi - i giovani con tipicamente solo 1000 € di stipendio - ai "meno che milleuristi", ma questo non per colpa di persone avide che hanno approfittato della loro situazione. Si rischia altrimenti di scadere all'interno di una cattiva informazione, filo-paranoica e perfettamente inutile. Non c'è un complotto, ma è il nostro modo di vivere l'economia legata alla tecnologia che, se non è reversibile, può comunque essere soggetto all'imposizione di molti, molti limiti per difendere al meglio la natura umana, come accade nelle economie scandinave».

Ed è infatti proprio all'interno di questa società di consumatori che gli individui si trovano in qualche modo ridotti a merci essi stessi. "Consumo, dunque sono", per dirla con Bauman; anche qui si intravede una "Morte del prossimo", per riprendere il titolo del suo volume edito da Einaudi?

«Non parlerei proprio di paranoia, ma di patologia sì. Una patologia che segue lo stesso pattern, un meccanismo di dinamica mentale che è sostanzialmente quello della paranoia; l'acquistismo è un'incapacità di lavorare con processi simbolici, un bisogno impellente che porta a voler concretizzare al di fuori di sé qualcosa che è del mondo interiore. Un'oggettivizzazione delle cose che non attiva più quei processi interiori simili alla fantasia e al sogno, ma che ci porta a vedere tutto come un oggetto fruibile in tempi brevi. Questo meccanismo mentale è parallelo a quello della paranoia, di chi non sa interrogarsi; la differenza sta nel fatto che la paranoia è estrema e patologica, e si esprime in campo morale.

Nel caso dell'acquistismo siamo di fronte ad un mondo interiore molto povero, ed al bisogno di vederlo proiettato ed oggettivizzato all'esterno: siamo diventati così estremamente individualisti. L'estremo individualismo va contro la nostra natura sociale, al bisogno di rapporti interpersonali che la cultura in cui viviamo cerca invece di sopprimere, ma inutilmente; un archetipo insopprimibile, dunque, che davanti alla "morte del prossimo" e al ritiro delle proiezioni riappare in forma distorta e malata nella veste di acquistismo.

Nella postmodernità l'individualismo radicale è divenuto una malattia di tutti, e quindi non è più classificata come malattia. La superficie del mondo si è ridotta ad essere la pelle del singolo indiviudo, e questa distorsione porta un sacco di problemi, compresa anche l'eccessiva importanza data al momento presente rispetto a quella concessa al futuro. Siamo estranei l'uno all'altro, ci chiudiamo in noi stessi sia rispetto al tempo che rispetto allo spazio. Dall'animismo tribale all'uomo scientifico per il quale "Dio è morto" (e sintetizzato da Nietzsche, poi impazzito), passando per la mitizzazione delle masse nel corso dell'800 e di buona parte del 900, siamo arrivati adesso all'individualismo radicale... in attesa della prossima fase».

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