Le maschere del dolore nella demenza: lo stato dell’arte


L’odierna letteratura scientifica considera il dolore come un fenomeno complesso di natura neurofisiologica e psicologica: l’International Association for the Study of Pain (Merskey Bogduk 1994) lo qualifica come «un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole, associata ad attuale o potenziale danno tessutale», sottolineando la correlazione tra la dimensione prettamente fisica del dolore e la componente psicologica della sofferenza.

Sebbene in questa definizione si ritrovi la deriva cartesiana che dicotomizza l’uomo in mente e cervello, si può notare come particolare attenzione sia posta sul termine «esperienza», luogo carnale in cui accadono gli eventi. Al pari di altri fenomeni, il dolore è un atto puramente sperimentale1, in quanto solo tramite l’esperienza ne possiamo avere conoscenza; infatti, i contenuti delle nostre conoscenze non derivano da un atto puramente riflessivo ma dalla sperimentazione in prima persona, che ci dona percezione e notizia di quanto accade.

Tuttavia il dolore, al contrario di altri fenomeni, si differenzia per una particolare qualità; oltre a essere patimento, e quindi sofferenza, risulta allo stesso tempo rivelazione, rompendo il nostro abituale modo di vivere e rivelando un mondo trasformato nella sua interezza (Natoli, 2010). Questa evidenza è particolarmente esplicita nel caso del dolore cronico, quando il dolore perdendo la sua accezione episodica e contestuale perdura oltre il normale decorso di una malattia acuta.

Tale cronicizzazione implica una condizione di sofferenza continuativa che determina un’importante costellazione sintomatologica che svilisce l’autonomia e riduce la qualità di vita dei pazienti. Appare quindi utile, al fine di comprendere e trattare il dolore cronico, indagare l’esperienza del singolo soggetto e verificare se questa, in alcune patologie, possa essere radicalmente diversa da come noi la conosciamo.

Lo scopo primario di questo articolo è cercare quindi di fornire una prima sintesi interpretativa sulla relazione tra dolore e demenza che a oggi appare tutt’altro che chiara, partendo dai presupposti dell’approccio cognitivo neuropsicologico (Liccione 2012, Liccione, 2011); se da un lato molteplici evidenze indicano l’invecchiamento come primario fattore di rischio nell’insorgere di patologie dal carattere algico (Pergolizzi et al, 2005), dall’altro diverse ricerche sottolineano come nelle patologie neurodegenerative tale indissolubile legame perda di significanza.

Infatti, uno dei dati maggiormente riportati in letteratura rivela come a parità di condizioni mediche, i pazienti affetti da demenza riportino meno dolore rispetto ai coetanei sani e ricevano una minor quantità di analgesici (Nygaard et al., 2005). Come mai i pazienti affetti da demenza denunciano meno condizioni dolorose a confronto dei loro pari esenti da patologie neurodegenerative? Tali dati sono da ricondurre a un problema di natura riflessiva (impossibilità di comunicare il dolore) o l’esperienza del dolore viene a mutarsi radicalmente in pazienti con demenza?

Approccio neuropsicopatologico al dolore

Tradizionalmente, sia in medicina che in psicologia, la deriva cartesiana ha portato a una netta dicotomizzazione tra patologie mediche (organico) e patologie a carattere psicologico (funzionale). Alla base di questo assunto vi era il fatto che nelle prime si poteva rintracciare un substrato neurale che evidenziava l’organicità della malattia, e quindi la sua medicalizzazione, mentre per le seconde vi era solo un problema di funzionamento dell’apparato ‘mentale’, in assenza di evidenti lesioni.

Al fine di superare tale empasse proprio del dualismo ontologico (mente/cervello), il modello teorico della psicoterapia cognitiva neuropsicologica propone una diagnosi differenziale basata non più sull’organicità della patologia, ma sulla storicità o non storicità del disturbo (Liccione, 2012a; Liccione, 2012b; Liccione, 2011). Viene così a crearsi un arco neuropsicopatologico (Liccione, 2011) dove a un polo troveremo patologie la cui eziopatogenesi è comprensibile solo a partire dalla storia dell’individuo – motivi eziopatogenetici – (patologia storica), mentre al polo opposto troveremo patologie la cui comprensione sarà comprensibile solo a partire da una causalità fisica – cause eziopatogenetiche (patologie non storiche).

Nelle prime i cambiamenti emotivo-comportamentali saranno comprensibili, e quindi spiegabili, come peculiare accadimento di una storia di vita, nelle seconde attraverso una causalità fisica che andrà a modificare i modi di accedere all’esperienza (patologie dell’ipseità). Tale dicotomia, non più ontologica ma semantica, può essere ben compresa anche in quadri clinici nei quali il dolore è uno dei sintomi principali. Nel primo caso, ad esempio, troveremo tutte quelle patologie che ricadono sotto il nome di disturbi somatoformi (Allegri, 2012) o disturbi depressivi (Petesi et al, 2011), dove un’alterazione identitaria nella storia dell’individuo ha generato tale disturbo; nel secondo caso, ad esempio una lesione cerebrospinale, che produce dolore cronico nel silenzio della storia dell’individuo.

Sebbene posizionate sui due poli opposti del continuum neuropsicopatologico, obiettivo del clinico sarà quello di identificare, tramite una sintassi e una semiotica clinica, quali siano gli indici che possano orientare la scelta diagnostica verso uno o l’altro polo (storico vs non storico). Esplorare l’esperienza del dolore esige in prima battuta riconoscerlo laddove è, e come si dà a chi lo incontra. Tornando all’oggetto del nostro discorso, il dolore nelle patologie neurodegenerative, prenderemo ora in considerazione alcune ricerche scientifiche al fine di rispondere alle domande che avevamo precedentemente avanzato.

Dati neuroscientifici

Una delle ipotesi esplicative proposte in letteratura a interpretazione del sotto-trattamento del dolore in pazienti con demenza, suggerisce un’alterazione dell’esperienza dolorifica (patologia dell’ipseità) connessa al progressivo deterioramento delle regioni corticali e sottocorticali implicate nella processazione e nella trasmissione dello stimolo nocicettivo (Kunz et al., 2009).

Ad esempio, interessanti ricerche (Benedetti, 1999; Benedetti, 2004) hanno rilevato come la peculiare degenerazione di specifiche aree cerebrali nella malattia di Alzheimer, implicate anche nella pain matrix, comporterebbero un aumento della soglia di tolleranza al dolore determinando pertanto una necessità inferiore di analgesici. Inoltre, processi neurodegenerativi che sottostanno a patologie dementigene diverse possono alterare l’esperienza dolorifica in modo esclusivo, determinando quindi peculiari pattern di alterazione dell’esperienza del dolore (Schereder et al, 2003; Carlino et al. 2010).

Sebbene tali dati non siano sempre confermati in letteratura, l’ampliamento delle conoscenze in questo ambito offrirebbe indubbi contributi alla prassi assistenziale, soprattutto per i quadri clinici che precludono una comunicazione adeguata della sofferenza. Il mutare dell’esperienza del dolore corrisponderebbe a un mutare dei segni e sintomi che la semiotica medica rileva tradizionalmente nel paziente sano. Le espressioni del dolore diventerebbero quindi nuove maschere, che necessiterebbero di una nuova metodologia d’indagine.

Proprio per questo motivo, negli ultimi anni si è assistito un fiorire di nuove metodologie di assessment del dolore in pazienti con demenza (Allegri et al, 2011). Attualmente sono disponibili due principali strumenti di analisi clinica che differiscono per il grado di coinvolgimento del paziente al momento della valutazione: i self report e le scale osservazionali. La scelta della tipologia di assessment sembra fondata sulle possibilità comunicative del paziente: i primi sono utilizzati in soggetti che dimostrano di avere adeguate capacità linguistiche, mentre le scale osservazionali vengono adoperate per pazienti con importanti limitazioni verbali.

Secondo Scherder et al (2005) le scale di autovalutazione misurerebbero principalmente la componente discriminativa del dolore, basandosi sulla stima dell’intensità della sofferenza, mentre gli strumenti osservazionali valuterebbero gli aspetti motivazionali e affettivi della sofferenza. I “self report” rappresentano il testing privilegiato per la sua brevità e immediatezza intuitiva, che li rende facilmente fruibili nel contesto clinico. Tuttavia, con il progredire della malattia la capacità del paziente demente di esprimere il dolore in maniera efficace e attendibile diminuisce (Kunz et al, 2007, Herr et al. 2006).

In quest’ultimo decennio sono state sviluppate e studiate numerose scale osservazionali al fine di rilevare il dolore nei pazienti dementi ovviando le difficoltà di comunicazione. Il razionale di questi strumenti è basato sulla considerazione che il dolore si manifesti anche attraverso comportamenti e segni non verbali, spesso aspecifici rispetto alla nostra rete coerente di rimandi (ad esempio: agitazione, irrequietezza, lamenti, pianto, grida, affaccendamento, insonnia). Un’analisi osservazionale dei segni e dei segnali comportamentali standardizzata, permetterebbe pertanto di inferire la presenza e l’intensità del dolore nel paziente superando la necessità della componente riflessiva.

Tuttavia, molti segni e/o comportamenti possono essere ambigui da un punto di vista clinico: nei pazienti non comunicativi con grave deterioramento cognitivo alcuni dei segnali tipicamente interpretati quali indicativi della presenza di dolore possono essere assenti o di difficile interpretazione. In ultimo, alcuni studi si sono concentrati sulla rilevazione delle espressioni facciali, mostrando, attraverso un sistema specifico di codifica (Facial Action Coding System, FACS), come esse possano essere un indicatore integrativo affidabile per la rilevazione del dolore nei pazienti dementi, specialmente nei casi di un’importante compromissione comunicativa (Lints-Martindale et al. 2007; Kunz et al. 2007).

L’espressione facciale associata all’esperienza del dolore, infatti, è considerata come indice comportamentale non verbale dolore-correlato tra i più preminenti, in considerazione della sua natura preriflessiva e della sua “unicità” che la rende immediatamente distinguibile dagli altri stati affettivi (Kunz et al. 2007).

Conclusioni

In conclusione, la letteratura segnala la necessità di una maggiore uniformità metodologica tra le ricerche e la convenienza clinica di un assessment multidimensionale, che integri tutti gli strumenti di valutazione attualmente a disposizione. Inoltre, si evidenzia come i protocolli di assessment e terapeutici del dolore potrebbero quindi definirsi in base alle specificità riscontrate negli studi sperimentali, che sembrano supportare la tesi secondo la quale nei pazienti dementi sia rintracciabile un alterato accesso all’esperienza dolorifica determinata dalle compromissioni neurodegenerative (in conseguenza quindi di una patologia dell’ipseità).

Fenomenologicamente, la rilevazione del dolore in questi pazienti deve fornirsi di diverse strumentazioni il più possibile esaustive e complete, flessibili rispetto alle prassi di valutazione in altri tipi di pazienti, per i quali la percezione del dolore è verosimilmente interpretabile secondo la nostra rete coerente di rimandi. Una miglior gestione del dolore nel paziente con demenza avrebbe un sicuro riverbero sulla gestione clinico/farmacologica del paziente migliorandone quindi la qualità vita.

Dott. Nicola Allegri
Università di Pavia
Scuola Lombarda di Psicoterapia

Prof. Davide Licicone
Università di Pavia
Scuola Lombarda di Psicoterapia

Dott. Diego Liccione
Università di Pavia
Scuola Lombarda di Psicoterapia

Dott. V. Caserio
Scuola Lombarda di Psicoterapia

Bibliografia

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