L’AQUILA VIOLENTA: IL BRANCO DA’ FORZA

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di Laura Biasini

L'AQUILA - “Il gruppo da un lato potenzia l'aggressività repressa dei giovani, dall'altro costituisce una forma di protezione dall'assunzione di responsabilità”.

Così, la professoressa Patrizia Di Fabrizio, professoressa di Sociologia della devianza e della criminalità presso la facoltà di Psicologia dell'Università degli studi dell'Aquila, ha commentato il recente episodio del pestaggio di un ragazzo di 27 anni a opera di un gruppo di giovani, tutti tra i 17 e i 21 anni, nel pieno centro storico del capoluogo abruzzese.

In genere si tende ad attribuire la responsabilità di questi episodi al contesto socio-economico a cui appartengono le persone coinvolte, ma secondo la professoressa Di Fabrizio bisogna invece partire da uno studio del nucleo familiare e dei modelli educativi che vengono adottati o che a volte sono del tutto carenti.

Ragazzi giovanissimi, a volte insospettabili, che si nascondono dietro al gruppo e si rendono autori di atti di violenza spesso ingiustificata, a volte per noia, altre per sfogare la propria aggressività repressa, stanno diventando sempre più numerosi in tutta Italia e ora anche all'Aquila.

Questi comportamenti possono essere considerati sintomo di un malessere sociale diffuso?

Credo di no. Penso che si tratti di un malessere proprio del mondo adolescenziale.

Quindi lei riscontra l'esistenza di un problema che riguarda soprattutto i giovanissimi?

Certo! Negli ultimi tempi questi episodi di violenza sembrano riguardare soprattutto i teenager. Il problema è che i ragazzi hanno la necessità di sapere che tutto gira intorno a loro, hanno bisogno di essere guardati, notati a qualunque costo, e ciò rientra tra le responsabilità degli adulti, del tutto incapaci di insegnare a vivere con e delle proprie emozioni. Da un lato i ragazzi non si sentono accettati dagli adulti e dall'altro sono gli adulti stessi che non dimostrano di essere in grado di studiare e accettare i propri figli, perché troppo presi dalla propria vita.

Quali sono i fattori che spingono i giovani a rendersi autori di questi atti criminali? Il desiderio di affermare se stessi?

Anzitutto bisogna considerare che l'aggressività è latente nell'uomo e che viene fuori, notevolmente potenziata, quando ci si ritrova all'interno di un gruppo. L'aggregazione smorza l'intelligenza e stimola la predisposizione alla violenza. Nel concreto dietro questi comportamenti si cela la pura e semplice esigenza di affermare se stessi, a qualsiasi costo: “Guardatemi!”, questo è il loro richiamo. Inoltre il branco si fortifica quanto più il pubblico parla delle proprie “gesta”, la pubblicità delle loro azioni le rende reali.

Alla base di questi comportamenti antisociali vi sono spesso situazioni complesse: disgregazione del nucleo familiare, incomunicabilità e in particolare deprivazione culturale e affettiva che chiamano in causa le responsabilità degli adulti; altre volte si tratta di ragazzi di buona famiglia, che provengono da contesti socio-culturali insospettabili. Lei come legge questa realtà che sembra stia diventando un'emergenza sociale?

Non ha senso fare una distinzione di questo tipo, dal momento che non si tratta di problemi di natura sociale in senso stretto. Si tratta di episodi che si verificano con la stessa frequenza in contesti socio-economici diversi.

In che misura la famiglia, la scuola e le altre istituzioni deputate all'educazione e alla formazione sono responsabili?

Sono completamente responsabili per la loro assenza, e mi riferisco in particolare alla famiglia che dovrebbe intervenire a monte, durante il processo educativo dei ragazzi. Questi episodi, nel concreto, prendono vita dall'aggregazione umana ma effettivamente nascono nel momento stesso in cui si manifestano queste carenze nel processo formativo.

Generalmente questi comportamenti antisociali vengono letti come richieste di aiuto. Gli psicologi vedono i giovani autori di questi atti di violenza come le vittime di un'educazione inadeguata, improntata all'anaffettività. Lei cosa ne pensa?

I genitori si sentono a posto con la coscienza per il fatto che non fanno mancare nulla ai figli, in termini di beni materiali, ma i problemi che derivano da questi modelli educativi sono sotto gli occhi di tutti. L'assenza fisica, la carenza di un'interazione profonda con i propri figli, la mancanza di comunicazione. Un altro danno enorme che i genitori commettono è la mancanza di una punizione, anzi la negazione se non la giustificazione di questi atti criminali, comportamento che finisce per trasformarsi in connivenza e che impedisce ai ragazzi di rendersi conto che le azioni hanno sempre delle conseguenze.

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07 Marzo 2012 - 08:04 - © RIPRODUZIONE RISERVATA

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