La scuola è una fabbrica della follia


(Del dott. Enzo Spatuzzi) Ognuno di noi che svolge una professione d’aiuto con l’ausilio dell’arte medica s’è creato un personale metodo per entrare in contato con la persona che gli chiede aiuto: un metodo che serve per conoscere chi gli sta di fronte che poi è l’operazione preliminare per indurre in lui un cambiamento, una trasformazione finalizzata ad abbassare il suo livello di disagio psicologico e per porre solide basi a ché egli possa esser felice.
Anch’io ne ho uno. Sempre lo stesso. Mutuato dagli antichi miei predecessori ed affinato nel corso degli anni tutti spesi a curare ammalati. Scrivo un romanzo brevissimo della vita del mio assistito di cui lui stesso ne è la fonte dei dati e l’ispirazione originale.
Nel corso della stesura di questo romanzo redatto praticamente a quattro mani da me e dal paziente, quasi sempre ad un certo punto della trama, mi trovo di fronte ad un imbarazzo, ad una sorta di buco nero tra le pagine chiare e le pagine scure di una vita a me raccontata. Non si creda che questo sofferto vuoto sia appannaggio della vita intima o delle condotte sessuali di questo sconosciuto di cui ci si prova a disvelare storie, segreti, misteri o banalità comuni. Più spesso lo stop, l’empasse, il torpore, il perturbamento, il disorientamento riguarda gli anni della vita scolastica di questo nostro narratore che è al tempo stesso un utente, un paziente, un cliente, un ammalato, un compagno di viaggio.
Ma che sarà accaduto mai tra le quattro mura di un’aula connotata da quell’inconfondibile odore di scarpette da ginnastica, gesso da lavagna e detersivo di pochi soldi?
E’ la scuola odierna fatta di dirigenti/manager senza budget alcuno e senza le qualità di persone sensibili o di cortesi responsabili del personale docente e non, ma anche, delle sorti degli studenti che frequentano il suo istituto nelle cui classeroom albergano professori malpagati e malpreparati. Su tutto galleggia una marea informe di studenti che si trovano nell’età più delicata del loro ciclo di vita.
Un universo sconosciuto quello studentesco in cui non v’è alcuno spazio per l’estrinsecazione dell’individualità di ciascuno ed è proprio a questo che la scuola nella sua interezza ha abiurato. Non per caso Kurt Cobain, leader suicida del gruppo grunge dei Nirvana, scrive in una sua song intitolata per l’appunto “School”, “…sei di nuovo al liceo, non sei nuovamente nessuno…”. Se avete voglia di andare ad ascoltare quella canzone sentirete quello stesso rumore angosciante che potete ritrovare pari pari all’interno degli edifici scolastici, nei bagni, nei corridoi, nelle palestre e persino nelle aule.
Come un bizzarro rapporto medico/paziente così la relazione docente/discente si connota non per una appassionata maieutica che fa tirar fuori dai ragazzi ciò che hanno dentro e non solo le informazioni, le nozioni e quant’altro occorra per una votazione o, meglio, per un giudizio generalmente svalutativo di un’intera generazione.
Meglio di me Roger Waters leader indiscusso del gruppo storico dei Pink Floyd fa cantare a un coro di alunni: “ Non abbiamo bisogno di educazione, non abbiamo bisogno di essere tenuti sotto controllo né di oscuro sarcasmo in classe, professori lasciate in pace i ragazzi! Hey professore, lascia in pace noi ragazzi! Tutto sommato, è solo un altro mattone sul muro, tutto sommato, siete solo un altro mattone sul muro…”
Ma i veri “mattoni nel muro” son proprio i ragazzi, gli studenti.
Ecco il sarcasmo, l’indisponibilità, la non docilità, il non amore son atmosfere che si possono tagliare con le forbici nelle claustrofobiche aule.
Il nozionismo è passato di moda, ma le nuove didattiche stentano a decollare. Pertanto con le nuove riforme rotolanti più spesso ci si attacca al tecnicismo informativo abdicando a quell’obbligo formativo a cui la scuola è tenuta come suo mandato ultimo.
In particolare quasi sempre son disattesi e trascurati, forse rispecchiando l’esterno, quelli che sono i saldi principi di umanità, amicizia, discrezione, solidarietà, cultura dell’accoglienza. Se poi nelle classi v’è un diverso, una personcina che ha ancora degli svantaggi o ritardi rispetto a condotte adattive da mettere in piedi velocemente, magari nel primo anno scolastico, pena l’emarginazione e l’esclusione, bene, allora si può chiaramente intendere perché dal racconto del mio paziente non emerge che un ostinato mutacismo quando si chiede del percorso scolastico di colui che dopo pochi anni è diventato un cliente affezionato e cronico della psichiatria.
La diversità in ogni campo è una risorsa e non un difetto, è un’occasione d’insegnamento e non una palla al piede, è un modello da applicare come stile di vita in futuro e non un handicap. A chi trova difficoltà nel mettersi in riga rispetto alle regole dell’efficientismo e dell’attivismo di questa nuova “legge della jungla” imperante anche nelle scuole, per così dire, progressistiche, non viene risparmiato nulla di quelle antitesi peggiorative e nocive che portano al disagio psicologico.
Quando va bene i professori che si sentono di "operare bene", dove "bene" significa in modo funzionale all'apparato, l'etica didattica si riduce al puro controllo e autocontrollo della funzionalità e dell'efficienza degli studenti. Ho potuto toccare con mano che più vi è la sbandierata esplicitazione dell’arido tecnologismo specialistico di maniera, più la cultura è latitante, slegata com’è per sempre dall’emotività comprensiva e solidale.
Altra cosa è la presa d’atto dei docenti della responsabilità "per le conseguenze" delle proprie azioni su ragazzi in formazione che, al contrario, viene mistificato da uno pseudoideale di efficientismo precoce in cui ogni individuo dev’esser costretto a risolvere la sua identità nella funzionalità, a misurare la sua libertà a partire dalla competenza tecnica, ad acquisire stima di sé a partenza dal riconoscimento che gli proviene dall'apparato di appartenenza, fino ad annullare la sua specificità ed unicità.
L’esito? La dispersione, la disindividuazione, l'omologazione, l’inseguimento del mito dell’efficienza e del successo ad ogni costo a cui sembra si sia arresa anche l'istruzione scolastica, definitivamente rinunciando a ogni ideale educativo e formativo, a vantaggio della pura e semplice acquisizione di strumenti e competenze tecniche.
A quel punto le difficoltà di quello che sarà il mio futuro paziente saranno insormontabili.
Senza dar spazio all’immaginazione e senza troppi giri di parole o, talvolta, in maniera subliminale, l’hanno “gentilmente” invitato a farsi da parte, a levarsi di torno per non costituire zavorra. Sarà stato scartato. Senza alcuna proposta alternativa
Se i professori espellono perché il loro compito è l'istruzione, la preparazione e la fortificazione solo degli studenti più bravi, va da sé che quelli con disagio ed i loro genitori si trovano di fronte a un vuoto, a una risposta mancata, che andranno a cercare altrove, ma non a scuola che di quel disagio doveva essere “la casa madre” per ogni intervento di recupero.
Non dimentichiamo che a motivare un ragazzo a scuola non è il sapere (che semmai è un mezzo), ma il riconoscimento di lui come persona senza cui non si costruisce alcuna identità.
Se il riconoscimento manca, l'identità, che è un bisogno assoluto per ciascun adolescente, la scuola, tutta la scuola ha fallito nel suo compito istituzionale.
Che fa la scuola per tutto questo? La scuola, nella sua falsa coscienza (non voglio salvare neppure la pace di taluni professori), svolge i programmi ministeriali, perché il suo compito non è di educare, ma di istruire i più forti secondo la darwiniana selezione naturale.
Ma le cose non stanno proprio così. Infatti laddove il sapere diventa lo scopo e il profitto il metro per misurarlo, la scuola fallisce, perché mortifica le soggettività nascenti in nome di un presunto sapere oggettivo che serve a dare identità più ai professori che agli studenti.
Solo questo ho appreso nel corso degli sbiaditi colloqui per progetti incentrati sui bisogni scolastici: non un solo legame emotivo con gli studenti a rischio disagio psicologico sono riuscito ad evincere, se non l’assoluta incomprensione che scatta non appena la psicologia perdente di quei ragazzi esce dagli schemi della psicologia vincente del professore. Nessuna cultura dell’accoglienza solo epurazione, in una specie di pulizia etnica del più fragile
Alla fine gli istituti in una grave forma difensiva rimuovono i suoi figli con le loro sconfitte.
E allora che fare? La risposta solo è rintracciabile negli intestini di scuole non più emozionali, emozionate ed emozionante, nei cervelli di scuole che non si vogliono più interrogare sul loro mandato e sulla loro vera funzione.
Ed i professori continueranno a “…dare amore a chi non sa che farne” (da “Anche per te” B/side di Mogol-Battisti, 1971).
Per concludere rispetto a questo mio denunciare una situazione di degrado morale, sociale, civile e culturale che si ripercuote sui nostri figli dirò: “Sia maledetta (detta male, se ne parli male di) una scuola che al suo interno ha solo un corpo docente e non un’anima.”
Enzo Spatuzzi
P.S. Si ringrazia la dr.ssa Silvana Oliviero, valorosa psicologa e appassionata psicopedagogista, senza la cui collaborazione questo testo non sarebbe uscito in tal modo.


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