La psicologia serve sempre in seminario e dopo?

Religiosi durante una celebrazione

Manca però una diffusa preparazione dei formatori, intervista a padre Giovanni Cucci

Fabrizio MAstrofini

Roma

La psicologia è un valido ausilio nel discernimento dei candidati al sacerdozio e nella formazione. Anche se ancora non c’è una linea davvero comune. C’è da crederci se a dirlo è padre Giovanni Cucci, gesuita, scrittore de La Civiltà Cattolica, che ha trascorso una parte dell’estate in Messico per una serie di conferenze organizzate dalla chiesa locale sulla prevenzione soprattutto in riferimento al tema della pedofilia. Alla psicologia in riferimento ai temi della vocazione, padre Cucci ha dedicato un articolo sull’ultimo numero de La Civiltà Cattolica ed almeno un altro ne ha in programma. Per Vaticaninsider ha accettato di rispondere ad alcune domande.

A suo avviso il ricorso alle scienze psicologiche aiuta nel discernimento vocazionale?

Certamente, a patto però di precisare i compiti e le modalità di questa disciplina, perché possa essere impiegata con competenza. In tal caso essa risulta di indubbio aiuto per la conoscenza di sé e per vivere in pienezza la propria vocazione. Nel 2008 è stato pubblicato da parte della Congregazione per l’Educazione Cattolica un documento dedicato a questo tema (Orientamenti per l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio). L’apporto della psicologia nel documento non viene limitato all’accertamento di eventuali patologie o squilibri a carattere psichico, ma riveste un compito più generale che la pone in relazione alla spiritualità e alla conoscenza di sé, come la rilettura della propria storia personale, la possibilità di vivere in modo maturo ed equilibrato la dimensione affettiva, l’aggressività, le relazioni, l’orientamento sessuale. Limitarsi a proclamare dei valori non è sufficiente. I valori, come si dice in psicologia, possono essere usati in modo “difensivo”, per coprire cioè difficoltà e carenze anche gravi. Il caso della pedofilia è stato un esempio emblematico. Quando me ne sono occupato, in un libro scritto con padre Zollner (gesuita, direttore dell’Istituto di Psicologia dell’Università Gregoriana, ndr), si notava soprattutto la mancanza di un adeguato screening della persona; un semplice colloquio, per quanto ampio, non è sufficiente a rilevare carenze strutturali.

Si fa in Italia?
Nella Compagnia di Gesù, l’ordine a cui appartengo, si chiede a ogni candidato una valutazione diagnostica prima dell’ingresso. Un tale passo va collocato all’interno di un percorso di ricerca della volontà di Dio, di conoscenza di sé, di disponibilità a farsi conoscere e aiutare. Se invece si usa mandare dallo psicologo solo i candidati ritenuti “strani”, o “problematici”, c’è il pericolo che la psicologia venga considerata come modalità di dimissione (in pratica uno strumento utile per mandare via i “pazzi”) senza notare il suo contributo per una crescita umano-spirituale. Lo stesso documento sopra ricordato tiene a dissipare questo possibile fraintendimento.

Quale psicologia? Cioè quali sono a suo avviso le teorie o le scuole maggiormente utili in questo campo?

Certamente una psicologia rispettosa del mistero della persona umana e della dimensione religiosa. Nell’articolo da lei ricordato ne menzionavo qualcuna. Ma è altrettanto importante che l’approccio dello psicologo sia rispettoso di questa complessità. Nessuna psicologia è esaustiva (per questo ce ne sono così tante), e i dati che rileva rimandano al momento più generale dell’interpretazione e della visione della vita (il dibattito rovente creatosi a proposito della nuova edizione del DSM è significativo al riguardo). La psicologia cerca di comprendere l’uomo e il suo comportamento con modelli e metafore che risultano però insufficienti a spiegare esperienze umane quali la gioia, il dolore, la colpa, la disperazione, l’amore, oppure esperienze religiose come il fascino o la paura, la disposizione al sacrificio o la speranza di salvezza. E nessun metodo di ricerca, empirico o sociologico che sia, può venire a capo del mistero dell’esistenza umana nella sua complessità e nelle sue sfaccettature psico-spirituali. È la persona, sia del candidato sia del formatore, l’elemento ultimo di questa sintesi.

Lei notava nel suo ultimo articolo l'importanza di mettere in guardia da una pratica a puro scopo consolatorio, in fuga dai problemi ordinari, modalità tutt’altro che assenti in alcune esperienze comunitarie religiose. A cosa si riferisce in concreto? Non c'è poca integrazione tra formazione e successiva vita pastorale?

Mi riferivo soprattutto, sulla base della ricerca di Godin, a forme di esperienze religiose troppo preoccupate di raggiungere un appagamento emotivo (come nella proposta new age), o alla ricerca del sensazionale come criterio di incontro con Dio, senza la disponibilità ad attuare dei cambiamenti. Negli Esercizi spirituali Ignazio di Loyola riconosce che il momento della desolazione e della tristezza sono egualmente importanti per fare verità circa il proprio cammino, per “mettere ordine nella propria vita”. Non sono da fuggire o da considerarsi una sorta di “punizione di Dio”, come nella religiosità legata a quello che Freud chiama “pensiero magico”, da lui giustamente stigmatizzato. La prospettiva cristiana è del tutto differente (cfr ad es. Lc 13,1-9) anche se purtroppo il pensiero magico è diffuso anche tra i cristiani e riemerge puntualmente in occasione di prove, sciagure e calamità naturali. Come nota sempre Godin, se l’uomo è spontaneamente religioso, non è mai spontaneamente cristiano.

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