La psicologia della frugalità: Tfr e 80 euro? «Non funzionano …

Intervista a Paolo Legrenzi, professore emerito di Psicologia alla Ca’ Foscari di Venezia e autore di "Frugalità"

[17 ottobre 2014]

luca aterini

di
Luca Aterini


Paolo Legrenzi

In italiano frugalità fa rima con prosperità, ma certo non secondo il modello economico con cui conviviamo a partire dalla Rivoluzione industriale: oggi più che mai, anzi, alla crisi si risponde cercando di stimolare i consumi. L’appena approvata legge di Stabilità del governo Renzi – anche se con un’efficacia ancora tutta da verificare – si muove sulla stessa linea. Eppure i consumi rimangono ostinatamente in profondo rosso. In questo contesto trovano posto soltanto meccanismi economici o anche la psicologia legata al consumo sta cambiando? L’abbiamo chiesto a Paolo Legrenzi, professore emerito di Psicologia all’università Ca’ Foscari di Venezia e fresco autore del volume Frugalità (edizioni il Mulino).

Crede che il modello di consumo stia cambiando, o se si gettassero soldi dall’elicottero tutto tornerebbe come prima?

«Dipende molto da qual è la cultura dei diversi paesi. Negli Usa dall’elicottero i soldi sono stati effettivamente buttati, ma nel nostro Paese le persone sono preoccupate per la crisi, e risparmiano. Quanto più il futuro sembra incerto, tanto più si propende per il risparmio. In Italia, poi, generalmente si preferisce privilegiare acquisti di un certo peso (case, auto), quando possibile, risparmiando sul fronte opposto. Anche per questo gli 80 euro del governo Renzi non hanno avuto particolare successo, e credo che neanche l’avrà l’opzione del Tfr. In ogni caso, lei si fiderebbe di un governo che sente continuamente l’esigenza di ricordare che si tratta – come nel caso degli 80 euro – di interventi permanenti?».

Nel suo libro parla di frugalità. Pensa che gli italiani ne abbiano ancora voglia, dopo 6 anni di crisi?

«È molto importante distinguere la decrescita, che è l’opposto della crescita – e che è sponsorizzata solo da una ristretta minoranza di persone, generalmente benestanti – all’idea audace della frugalità, che implica la possibilità di stare bene anche senza crescere. Da almeno 4 anni in Italia è in corso un esperimento naturale di decrescita, e i cittadini non ne sono affatto contenti. La prova dei fatti dice che ci stanno rimettendo i più deboli, i quali peraltro non hanno mai scelto di intraprendere questa strada. Al contrario della decrescita, la frugalità è invece una scelta psicologica, individuale.  Nel modo di pensare degli economisti è sempre presente anche una traccia di violenza: “so cos’è meglio per te e te lo impongo”. Così non è per la frugalità, che non dipende dalle condizioni economiche – si può essere infatti ricchi e frugali allo stesso tempo – e che si traduce in molteplici aspetti: il primo dei quali è riconoscere che non si può comprare e vendere qualsiasi cosa. Frugalità è, anzitutto, evitare che uno decida per te, non delegare ad altri i tuoi obiettivi, pensare con la propria testa».

Da decenni siamo ormai abituati a vedere una connessione diretta tra più consumi e maggior benessere. Se togliessimo improvvisamente la crescita economica dal ruolo di bussola non verrebbe a mancare una tensione in qualche modo vitale?

«Se riuscissimo a introdurre il valore della frugalità non ci sarebbe così tanto bisogno di auspicare una crescita economica, quale che sia. La frugalità è interna alla struttura, al tipo dei consumi. Non significa solo consumare meno, ma soprattutto cambiare il modo di spendere: meno acquisti e investimenti indirizzati al breve termine, e maggiore attenzione al lungo termine».

La storia c’insegna che sono già esistite società che facevano della frugalità un valore, come quella dell’antica Roma analizzata dall’antropologo Cristiano Viglietti. Crede sia possibile per noi moderni rielaborare e attualizzare alcuni elementi di quel modello?

«Conosco e apprezzo i lavori di Viglietti. Anche la storia recente è frutto di insegnamenti: fino a pochi decenni fa la nostra – come molte altre – era una società contadina, che per definizione vive in un ambiente ostile e incerto. Si fondava su uno stile di vita frugale, ed era obbligata a pensare a lungo termine se voleva sopravvivere. L’abbandono della frugalità non è stato casuale, ma frutto di numerosi ingegni. È stato progettato e perseguito con vigore.

Negli stessi anni in cui Keynes scriveva il suo “Prospettive economiche per i nostri nipoti”, immaginando un prossimo futuro (il nostro) in cui avremmo lavorato soltanto pochissime ore alla settimana dedicando e mettendo a frutto il nostro tempo libero, Egmond Arens e Roy Sheldon delineavano uno sviluppo totalmente diverso. Nel 1932 hanno previsto che, seguendo passo dopo passo la vita di un prodotto con strategie di marketing e fomentando il confronto sociale, oltre a introdurre il concetto di obsoletismo per rendere più desiderabili i nuovi prodotti, i consumi avrebbero potuto crescere oltremodo. Hanno vinto la loro battaglia; anche oggi che il lavoro è sempre più scarso, negli uffici e nelle fabbriche non è stato distribuito, i lavoratori rimasti non sono meno impegnati. Oggi lavoriamo così tanto – chi può, almeno – per sostenere livelli di consumo inimmaginabili al tempo di Keynes».

Ripensare la quantità e la qualità dei nostri consumi è un’esigenza ecologica (ed economica) sempre più pressante, ma le azioni in questa direzione tardano ad arrivare. In un suo recente studio individua come la politica di (non)intervento di stampo wait-and-see in campo ambientale stia imperando: l’ambiente non è ancora un tema che fa vincere le elezioni. Ci troviamo prigionieri dei nostri stessi meccanismi psicologici, in attesa che sia troppo tardi per evitare l’evento catastrofico di turno?

«Assolutamente, in Italia l’ambiente non fa vincere le elezioni perché il pubblico dibattito non è stato movimentato a un adeguato livello; servirebbe che le persone imparassero ad avere orizzonti a lungo termine nell’effettuare le proprie decisioni. È questo un problema che non riguarda solo l’ambiente. Gli italiani tengono molto ai loro figli, ma a loro lasciamo un alto debito pubblico e ambiente depauperato. Sui motivi di questo atteggiamento influiscono molti fattori: la logica industriale nella quale il nostro Stato è entrato solo recentemente rispetto ad altri; la realtà di un Paese cattolico e non protestante, dove il concetto di divina provvidenza influenza ancora in modo importante il nostro atteggiamento; la tradizionalmente scarsa etica pubblica, e altri motivi ancora. Quello che ora è necessario è un’opera di educazione, a partire possibilmente dai bambini, in modo che si convincano dell’opportunità della frugalità. Molti italiani oggi sceglierebbero la frugalità se gli venisse chiesto, ma solo in teoria. Di fronte alle continue tentazioni è difficile resistere».

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