La feroce psicologia: sull’utilità e il danno del pensarci bene per la …

Mi trovo a volte in situazioni in cui la mia psicologia è messa a dura prova. Sto parlando di quel genere di circostanze nelle quali dovete pensare velocemente a tutte le possibili alternative alle vostre azioni, cercando di ottenere, come si dice, il massimo risultato col minor dispendio di energie possibile, ed eventualmente guadagnarci anche qualcosa.

Ecco: io sono contro il passaggio segnalato dall’«a pensarci bene»: è sempre reazionario, e quasi mai benevolo. Anzi, a pensarci bene (…) è sempre fascista, crudele, utilitaristico, economico. Io appartengo a quella comunità silenziosa di persone che quando si trovano a decidere tra due opzioni hanno già deciso cosa fare dopo due minuti, ma fanno finta di pensarci per non apparire impulsive. Che si tratti di acquistare un succo di frutta al mirtillo (ne approfitto per svelare al mondo che non esistono succhi di frutta al mirtillo: generalmente si tratta di altra bevanda spacciata per succo di mirtillo, in genere sidro e polpa di mela e sambuco con uno 0,5% di mirtilli: tracce) o di lasciare un uomo sull’altare, io sempre due minuti ci metto, a decidere. Quando qualcuno mi dice che deve riflettere io lo guardo con diffidenza; in definitiva, io non ci credo che davvero state pensando quando dite di doverci pensare.

Mi rifiuto. Secondo me non pensate affatto, anzi, il tempo vi serve proprio per non pensare: «aspetta, fammici pensare» nel mio sistema neurologico – viene immediatamente tradotto con – e conseguentemente lo uso solo per dire – «non scocciarmi adesso, ci penso dopo». Nel tempo che al mio interlocutore occorre per formulare a mio beneficio (a mio danno) una questione che suppone gravida di azioni possibili, io ho già deciso cosa fare, considerato, escluso e rivalutato per tre volte tutte le alternative. Non suoni presuntuoso, non sto dicendo che sono più veloce degli altri; sto dicendo, invece, che sono più pigra, che insomma salto i passaggi. Dice: ma così poi ti penti, l’impulsività non paga, è meglio contare fino a 10 prima di…

Sì, va bene, e il riso lo devi far cuocere aggiungendo acqua un poco alla volta. Va bene.

Ho letto da qualche parte che è una questione di sviluppo degli emisferi del cervello: evidentemente quello logico-operativo deve essere stato danneggiato o usurato in fase intrauterina: «Che faccio, nasco o non nasco?». Per le persone, lo stesso: o mi piaci subito, e quindi per sempre, o subito esci dalle mie preferenze: non vale la pena rivalutare tutto sulla base di quello che succede, no? Cioè, ma davvero cambiate opinione e atteggiamento sulla base di ciò che accade nell’ambiente? Davvero seguite così pedissequamente i dettami dell’evoluzione, le strategie dell’adattamento, la tattica obsoleta di fare tesoro dei condizionamenti sociali per agire il più razionalmente possibile? E a che pro? Per conservarvi? Per risparmiarvi? La ragionevolezza non è data dal tempo che passa tra la vostra prima decisione e le successive: se il mondo intorno cambia, ha solo da rimetterci. Non mi capacito.

Ciononostante, o forse proprio per questo, apprezzo come un dispendioso e inutile vizio addentrarmi nelle altrui complicate e ramificate meccaniche psicologiche, tese fino allo spasimo nel gioco delle alternative e dei rovesciamenti. Stimo oltremodo chi è in grado di raccontare capovolgimenti psicologici del tipo: è successo A, allora io ho deciso di fare B; poi XX ha detto C, allora io ho deciso di fare D, ma siccome D era una cosa che mi diceva di fare anche YY, io ho scelto di fare una combinazione di A+D. Quanto lo invidio. Credo che in ciò consista la migliore letteratura: nel rendere conto, con pazienza certosina, dell’incessante lavorio del cervello, che siccome per quelli come me, se avviene, avviene nel giro dei succitati due minuti, deve essere srotolato, diluito sulla pagina con una meticolosità talmente spietata che quel passaggio dell’«a pensarci bene» deve tirare, come quando si riduce la frattura di un osso. Bisogna tenere fermo un lembo dell’ordito generale con una mano, mentre con l’altra si muove rapidamente, impietosamente, il resto del tappeto con sopra i personaggi, le loro singole psicologie, le loro relazioni, così che quando si torna a guardare la posizione di ciò che era sul lembo si nota che si è spostato impercettibilmente, e si rende conto di quello spostamento che a sua volta ha modificato il quadro d’insieme e la nostra percezione dello stesso, e così fino alla fine.

Faccio un esempio, su tutti.

Prendete il racconto di Maupassant Pallina, o Palla di sego.

Devo raccontare un po’ di trama, sebbene la trama sia costruita dalla tensione invisibile che lega i fatti, e si esprima proprio attraverso una specie di resistenza elettrificata che scorre sotto le righe. Un gruppo di francesi lascia Rouen perché sono arrivati i prussiani, che stanno facendo razzia del villaggio. Già questa invasione, però, è complicata da una strana luce, per cui il nemico non è esattamente tale, non si comporta da oppressore ma, anzi, diventa quasi un ospite del villaggio, si fa accudire, dà una mano in casa dell’oppresso, ecc. Tuttavia, «c’era qualcosa nell’aria, qualcosa di sottile e d’ignoto, una insopportabile atmosfera estranea e una specie di odore diffuso, l’odore dell’invasione», e questo gruppo di persone decide di affittare una diligenza e partire verso La Havre.

Il gruppo è composto da una coppia di ricchi commercianti, da una di borghesi e da una di aristocratici, da due suore, da un democratico-rivoluzionario («il terrore delle persone perbene») e dalla sua (forse) amante, Pallina. Tutti in villaggio al conoscono, dato che si dice sia una di quelle donne «che vengon chiamate allegre». E comunque la sua fisicità parla chiaro (il nomignolo viene proprio dalle sue rotondità). Le signore sono un po’ scandalizzate dalla sua presenza. Lanciano uno sguardo a lei e uno ai mariti per accertarsi che non la stiano guardando. Le suore non ne parliamo: mute, fanno le sfingi.

Il viaggio si fa più lungo di quanto previsto, il convoglio è lentissimo, e verso l’ora di pranzo i viaggiatori si rendono conto di non aver portato nulla da mangiare. Nel freddo vagone si sentono brontolare gli stomaci. Pallina tira fuori un cestino con delle vivande, e comincia a mangiare. L’espressione di scandalo negli occhi degli altri prima aumenta fino a un picco inverosimile («il disprezzo delle signore per la ragazza divenne feroce») poi lentamente si trasforma in una beota maschera di cupidigia: la fame, nell’odore di pasticcio di carne che si sprigiona nell’aria, diventa quasi simpatia, concupiscenza. Pallina se ne accorge, e comincia ad offrire il cibo a chi ne vuole. Siccome Maupassant sa che la psicologia è sempre feroce, specie quando appartiene ai semplici, fa sì che le signore provino una sincera simpatia per questa signorina che forse avevano giudicato male, e mentre tutti mangiano il bendidio che nasconde sotto le gonne noi ci sentiamo in fondo riconciliati con questi benpensanti.

Si decide di fare sosta in un albergo, in cui, ospite/invasore, soggiorna anche un ufficiale prussiano, che quando alla sera i viaggiatori sono riuniti attorno alla tavola dà all’oste l’ordine di condurre Pallina nella sua stanza. Quando lei ridiscende, con le guance in fiamme spiega che l’ufficiale impedisce al gruppo di ripartire fino a che non si sia concessa a lui. Tutti sono basiti (anche se qui, la maestria crudele di Maupassant ne rende conto con la frase «l’indignazione fu così viva che la frase non scandalizzò nessuno»). Sono tutti d’accordo: ma che oltraggio, che impudenza! Le donne le esprimono solidarietà. Le suore abbassano lo sguardo. La cena trascorre tranquilla, nel comune accordo di tutelare e appoggiare l’integrità della ragazza.

Quando Pallina si alza per una passeggiata, però, i borghesi rimasti soli si mettono a ragionare. Però… però… questa Pallina. Che carattere. Ha fatto bene, in fondo. Sì, bene: diciamo ha fatto bene se… Ma quanto ci toccherà stare qui, in questo albergo? Fin dove arriverà questo arrogante ufficiale? Gli deve essere arrivato all’orecchio che tipo di professione fa la ragazza. Certo, «a pensarci bene», avanza il pratico commerciante, «a lei non costerebbe niente». In fondo, ci salverebbe tutti, ci manderebbe al caldo, a casa. Anzi, a dirla tutta questa Pallina è un po’ egoista, se per salvare il suo onore ci tiene tutti qui, sequestrati. Quando Pallina ritorna l’atmosfera è cambiata: nessuno la degna di uno sguardo.

L’invisibile e crudele psicologia sta lavorando in background con sadica soverchieria, e Maupassant affila il coltello.

La mattina dopo, a colazione, l’oste viene a dire che l’ufficiale non è ancora stato soddisfatto, e che quindi non può legare i cavalli affinché il gruppo possa ripartire. I borghesi si guardano l’un l’altro, e guardano Pallina accusandola mutamente. Passano le ore, e ancora un giorno. Pallina non si smuove. Ormai per lei provano solo odio. A cena, le donne cercano di metterle pressione con discorsi «involuti, misurati, abili». Addirittura le suore, interrogate malevolmente, tirano fuori lo spirito di sacrificio, con questo capolavoro di ingegno chiodato che Maupassant inventa:

- Così, sorella, pensate che Dio accetti ogni mezzo, e perdoni qualunque azione, quando il motivo sia puro?
- Chi potrebbe metterlo in dubbio, signora? Una azione in sé riprovevole spesso diventa meritoria, perché è bene ispirata.
Andarono avanti di questo passo, mettendo in chiaro i voleri di Dio, prevedendo le sue decisioni, costringendolo a interessarsi di cose che, a dir la verità, non lo interessavano affatto.
(…). Le avevano richieste da La Havre per curare, negli ospedali, centinaia di soldati colpiti dal vaiolo. Così, intanto ch’erano ferme per strada a causa d’un capriccio di quel prussiano, potevano morire tantissimi francesi che, forse, esse avrebbero potuto salvare.

Quale mirabile lavaggio del cervello, dei personaggi e nostro, Maupassant abbia messo in atto, è ora chiaro. Finalmente, una mattina Pallina ridiscende ed è evidente che ha ceduto alla tenaglia psicologica. Si è concessa al comandante, possono ripartire. Al sollievo di tutti si unisce però un vago senso di delusione, anzi: di disgusto, per quella femmina che si è concessa in quel modo. Che orrore. Sarà contagiosa? E vorrebbe che le fossimo grati? Chissà i mariti cosa stanno pensando, adesso, come se la immaginano. Nella diligenza, stavolta, nessuno le parla. Maupassant procede verso la fine a colpi di rasoio. Nella vergogna e nella concitazione dei suoi ultimi momenti all’albergo Pallina ha dimenticato di portare qualcosa con sé per il viaggio, mentre gli «onesti cialtroni» se ne sono ricordati. Infatti mangiano senza offrirle niente, vagamente sdegnati, paghi dalla conferma che hanno appena avuto dal mondo marcio, mentre il democratico fischietta la Marsigliese.

Leave a Reply