«Io, medico imperiese, in prima linea nella guerra contro l’Ebola»



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Roberto Ravera, di Imperia, è primario della struttura complessa di Psicologia della Asl1 Imperiese, presidente di Fhm Italia Onlus e presidente di Ravera Children Rehabilitation Centre (Rcrc), un’organizzazione non governativa in Sierra Leone. Di seguito il racconto della sua attività come volontario a favore della popolazione africana.

| Gallery: «La mia guerra contro l’Ebola in Sierra Leone» |

Sierra Leone - Scrivo mentre volo verso l’Europa di ritorno dalla Sierra Leone, dove ogni volta lascio un pezzo di cuore. Lì non sono il primario di Psicologia Clinica, certamente utilizzo il mio sapere, ma lì sono e faccio anche tante altre cose. La mia Organizzazione non governativa Rcrc –(Ravera Children Rehabilitation Centre) sta portando avanti progetti complessi e importanti grazie al nostro impegno di volontari certo, ma pur sempre professionisti e grazie a tante persone che credono in noi, ci sostengono e finanziano il nostro lavoro.

La Sierra Leone, fino ad alcuni mesi fa, è stata su tutte le prime pagine dei giornali a causa di Ebola. Ora non se ne parla quasi più, ma la mia impressione è che Ebola non sia affatto sconfitta. Girando per la Sierra Leone si capisce quale dramma epocale sia stato e, almeno in parte, continui ad essere Ebola. Questo è un virus strano, più intelligente di quello che si pensi. Come ricorda Gino Strada di Emergency questo virus diventa sempre più un killer formidabile. Si è diffuso a macchia di leopardo in molti dei distretti che compongono la Sierra Leone, soprattutto le zone che confinano con la Guinea Conakry, ma anche a Freetown, la capitale.

Il virus dell’amore

Ho incontrato Khadija Alia Bah-Wakefield, un’antropologa sierraleonese con laurea a Cambridge, che ha ben definito Ebola come il “virus dell’amore”. Infatti, si trasmette come effetto di un legame affettivo, passa di madre in figlio e diventa il killer che uccide proprio all’interno dei legami familiari e di relazione. Come non abbracciare e accudire chi sta male? Ma è così che il virus si trasmette. Uno dei progetti che la mia organizzazione ha promosso a Waterloo, una zona estremamente povera nella penisola di Freetown, con oltre un centinaio di sopravvissuti a Ebola, ha fatto emergere storie allucinanti di intere famiglie sterminate, di madri che hanno visto morire i loro figli senza nessun aiuto, di quarantene improvvisate. Isolando interi villaggi nessuno si è preoccupato di fornire cibo a questi ‘segregati’ e nessuno che si è occupato dei tanti bambini rimasti senza genitori. Non dobbiamo pensare ad Ebola solo in termini di tute, scafandri e medici super specializzati.

Un mondo arcaico

Prima e dopo tutto questo c’è un mondo arcaico in cui è difficile muoversi, dove moltissime persone sono state lasciate al loro destino. La sofferenza associata a Ebola è quella di un popolo il cui standard di vita era già tra i più bassi al mondo. Adesso ci vorrà un tempo interminabile per ritornare almeno ai livelli precedenti. Se si vuole capire bene bisogna provare ad attraversare in auto la capitale durante la giornata, si sa quando si parte ma mai a che ora si arriverà. Ebola si è incontrato con questa modernità, ha avuto accesso a gente che si muove e usa mezzi di trasporto. Per la prima volta questo virus micidiale si è veicolato in modo incontrollato da una zona all’altra della Sierra Leone, Liberia e Guinea Conakry, facendo migliaia di vittime. Se si pensa che a Freetown non vi è acqua corrente se non in alcuni quartieri più esclusivi, dunque è un via vai di bambini e donne con in testa secchi colorati che portano acqua nelle loro baracche sulle colline. Niente fogne, l’energia elettrica serve a singhiozzo solo poche case. Un paio di milioni di anime abita in questa bolgia, dove i mercati ingolfano le poche vie di scorrimento della città. La sanità e la scuola sono sempre a pagamento e entrambe di bassa qualità. E’ in questo mondo che Ebola ha avuto terreno fertile. Provate a vedere come sono sistemati i malati in un ospedale e capirete cosa voglio dire. Ma qui il miracolo è già quello di essere curati. Oggi chi ha la malaria o deve partorire se può non va in nessun ospedale, perché sa benissimo che verrà messo in astanterie in cui potranno esserci persone affette da Ebola. Le scuole sono il vero disastro di questo paese di quasi cinque milioni di abitanti. Scuole fatiscenti, con classi di 80 o più studenti. In tutto questo Ebola ha fatto il resto: da un anno le scuole e le università sono chiuse. Significa che la Sierra Leone ha perso un anno intero per l’istruzione dei suoi giovani, un danno incalcolabile per questa terra. A me pare che non vi sia mai stata una riflessione importante sulle ragioni di una epidemia di questa portata e soprattutto, perchè la Sierra Leone sia stata, insieme alla Guinea Conakry e Liberia, così colpita e così vulnerabile.. Ora hanno messo ovunque cartelli che invitano a mandare via Ebola, e prima di entrare in quasi tutti i locali pubblici ci si deve lavare le mani. Tutti sembrano all’apparenza rispettare il divieto di toccarsi e stringersi le mani, ma poi questa stessa gente torna nello loro case dove la promiscuità è cosa normale, dove mangiano nello stesso piatto e i bambini sono lasciati normalmente nell’incuria totale e i servizi igienici nulla hanno di igienico. Per fortuna invece, nel famigerato slum di Kroobay, dove siamo presenti da anni offrendo assistenza medica gratuita agli oltre 12.000 abitanti di questa incredibile baraccopoli di Freetown, vi è stata una mobilitazione degli abitanti: hanno disposto dei check point a tutti gli ingressi, con controllo obbligatorio della febbre e la pulizia delle mani con la clorina. Noi abbiamo finanziato l’acquisto del materiale necessario e istruito la popolazione, la quale ha capito però l’importanza di questa auto-mobilitazione. Per quanto rudimentale tutto questo possa sembrare, per ora ha impedito ad Ebola di fare, in questo misero luogo, una vera e propria strage. La cosa interessante è che si sono visti i risultati dell’ intervento culturale che abbiamo fatto nel corso di questi anni. Alla fine si può essere anche un pò ottimisti.

La stregoneria

Ma il vero alleato del virus è anche la credenza diffusa nelle streghe, nella magia e nel fatto che gran parte della malattie passano prima di tutto alla visita dello stregone. E in Sierra Leone, per molte persone, Ebola è proprio il risultato di una stregoneria. In occasione dei funerali diventa difficile far capire che si debbono seguire norme precise per la tumulazione delle salme. E’ successo diverse volte che i morti di Ebola siano stati seppelliti di giorno e riesumati la notte per portare a termine i rituali magici. Altro problema per i sopravvissuti al virus è quello di sfuggire all’isolamento e alla stigmatizzazione poiché vengono visti dagli altri con diffidenza, nonostante il governo li abbia forniti di un ‘certificato di guarigione’. E’ poi anche difficile far capire ai maschi di non avere rapporti sessuali per tre mesi dopo la guarigione, visto che nello sperma il virus rimane presente per questo periodo, dunque può infettare. Per questo noi ci avvaliamo di alcuni sopravvissuti che ci aiutano nel lavoro di mediazione e che sanno ben spiegare agli altri cosa fare e non fare. Ma il pensiero magico e il pregiudizio sono bestie difficili da combattere. Questo background culturale è una crosta dura da scalfire. Il risultato è che oggi, in Sierra Leone, vi è un vero disastro umanitario. Molti casi di Ebola potevano essere evitati dando corrette informazioni e tenendo conto della necessità di una mediazione antropologica in grado di farsi capire da chi non ha strumenti culturali adeguati, ma anzi vive ancora come se fosse in un passato remoto. Non sempre l’arrivo di esperti dall’estero è stato efficace, soprattutto se come è successo, molti di loro non avevano esperienza di lavoro in questa parte di Africa e non conoscevano usi, costumi e lingua.

Come in teatro

Anche nel campo del lavoro psico-sociale occorre una grande competenza antropologica, così da essere in grado di suggerire interventi efficaci e comprensibili. Noi, quando l’epidemia era ancora all’inizio, abbiamo fatto degli interventi, in alcuni villaggi, sul rischio di Ebola, ma sempre utilizzando mediatori locali e mettendo in scena ogni cosa alla maniera africana. Ritengo infatti che la ‘drammatizzazione’ sia fondamentale nell’humus culturale di questa terra, perché in Sierra Leone tutto è rappresentato come se si fosse in un teatro, dove la comunità è il centro della vita sociale e personale. Uno dei bambini della nostra comunità qualche giorno fa ha manifestato i segni di una encefalite e abbiamo avuto il problema di dove portarlo, qui i malati vengono accolti nei pochi ospedali attivi e messi in sala di controllo insieme ad altri pazienti che potrebbero avere contratto Ebola. Ma soprattutto è l’intero sistema sanitario che ha avuto un salasso terribile, infatti il condizionamento operativo determinato dalla misure anti Ebola ha messo in ginocchio l’assistenza sanitaria per le altre malattie. Molto donne e/o bambini sono morti di parto. Mi ha raccontato una madre sopravvissuta ad Ebola che un giorno ha incontrato un auto del governo che stava portando via alcuni malati di Ebola e ha chiesto di essere presa anche lei e i suoi bambini malati, ma non lo hanno fatto. Allora lei ha preso i suoi due bambini e li ha caricati a forza sul mezzo minacciando che se non li avessero portati nel centro Ebola lei avrebbe contagiato tutti quelli che poteva. Non penso questa donna sia un ‘untore’ cattivo, solo una madre disperata. I suoi figli sono morti, lei oggi è completamente sola. Sono convinto che il vero dramma sia relativo alla grande percentuale della popolazione che qui ha meno di dieci anni. Provate a viaggiare verso Lakka o Sussex o Kent e vedrete centinaia di bambini impegnati sotto il sole cocente a spaccare le pietre.

Bambini spaccapietra

Sono una enormità di bambini che non hanno davanti a loro che sfruttamento e miseria, senza nessuna prospettiva o speranza. Durante un lavoro svolto con un gruppo di bambini sopravvissuti ad Ebola, siamo rimasti colpiti dalla loro impassibilità. Li abbiamo forniti di spazio, giochi, tutor locali ma, il più delle volte, rimanevano cristallizzati in una inespressività per me raggelante. Il sorriso era una copertura ad uno sguardo impaurito e il loro modo di giocare era inespressivo e congelato. Questo è un luogo di grandi contraddizioni, ci si abitua al forte contrasto; ad esempio nonostante la grande disoccupazione e sotto-occupazione che investe la maggioranza della popolazione, quasi tutti qui hanno un telefono cellulare. Sembra essere una delle grandi ossessioni della post modernità incarnata in un sistema quasi medioevale. Viene in mente quello che diceva Claude Levy-Strauss in Tristi tropici: “l’umanità si cristallizza nella monocultura e si prepara a produrre la civiltà in massa come la barbabietola”. Il virus da queste parti ha prodotto un raffinatissimo processo di congiunzione tra la modernità dei mezzi di trasporto e il modello arcaico di una cultura sociale e religiosa.

Un fiume di soldi

Qui vi è stato un grande investimento da parte delle organizzazioni internazionali, un fiume di soldi che ha inondato questo tormentato paese del West Africa. Forse si potrà dire che è troppo presto per vedere dei cambiamenti, ma nella realtà qui tutto si sedimenta con gran velocità. Qui si vive di ciò che la cooperazione internazionale elargisce ma senza che vi sia un vero e profondo modello di crescita. Molti di noi cooperanti vivono i segni dello sconforto quando capita di confrontarci. Si fa fatica ad ammetterlo, ma i segni di un cambiamento significativo sono difficili da vedere. Un Paese che è potenzialmente ricco (oro, diamanti e altri minerali preziosi) si ritrova nelle di Sviluppo Umano. Una classe dirigente che spesso non è in grado di farsi carico dei reali problemi della maggioranza dei poveracci. Non credo che ci sia un grande interesse a investire sulla ricerca di un vaccino per Ebola; in fondo che convenienza potrebbe esserci a spendere grandi capitali a queste latitudini? Non saranno qualche migliaio di morti di Ebola a scatenare la corsa al vaccino! Noi costruiamo case, ospedali e progetti, ma il più delle volte è veramente difficile entrare nel vero elemento antropologico che costituisce il fulcro della loro vita psicologica. Dopo anni di esperienza in Sierra Leone nell’ambito di progetti di salute mentale, ancora molte sono le cose che mi sono oscure! Girando per Aberdeen e Freetown si vedono case con persone in quarantena. Ti guardano dai tetti, dai terrazzi, dalle finestre senza vetri e sembrano non capire quello che gli sta succedendo. Per quanto noi possiamo farci carico di aiutare questa gente, chi curerà il loro disincanto doloroso in una terra così difficile? Per questo ritengo che la soluzione debba passare attraverso un processo di cooperazione sostenibile. Questo significa essere qui con loro, aiutarli, sostenerli, formare il personale locale, ma senza incorrere nell’assistenzialismo non finalizzato a un processo di acquisizione di competenze e responsabilità. Credo sia vero che non è nostra prerogativa cambiare il mondo e, credetemi, per quanto e cosa tu abbia fatto laggiù, non te ne vai con la sensazione di avere appagato il tuo cuore. Piuttosto è un vuoto che si apre sempre di più, dove aspetti “la prossima volta”, dove cerchi di trovare i fondi per fare altro e altre cose ancora.. Non vedere è meglio e non mischiarsi potrebbe essere la soluzione, però quando ci SEI, quando li vedi, li chiami per nome e diventi parte della loro storia, non è facile non farsene carico. Non ci rimane altro che parlarne, raccontare, affinché si sappia la verità. A dispetto di coloro che gridano “aiutiamoli a casa loro”, se non vai laggiù, se non ti coinvolgi, se non fai direttamente, nulla cambia e cambierà.

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