di Paolo Fallico
Gli ingredienti ci sono tutti alla galleria Raffaella De Chirico di via Vanchiglia a Torino, dove Tilde Giani Gallino espone fino al 15 Gennaio una selezione di fotografie: luci, ombre, suggestioni, immersioni in paradisi surreali, connubi tra il mondo della materia e quello del sogno, realtà quotidiane della vita e incontri ravvicinati con l'astratto, con i miraggi e la metafisica.
Giani Gallino stessa è depositaria di una doppia vita o natura: già docente universitaria di psicologia dello sviluppo e autrice di molti testi scientifici, e artista della fotografia (è membro del World Photography Collection di Londra). L'autrice ci accompagna tra le sue opere, rivisitando le emozioni e i sentimenti racchiusi nei frammenti di realtà immortalati dall'obiettivo dalla sua macchina fotografica.
Professoressa, "Il lato psicologico della fotografia" è il nome della mostra, ma che rapporto c'è tra psicologia e fotografia?
«Sono due modalità di conoscere le persone e il mondo che le circonda. C'è una storia parallela tra le 2 forme di conoscenza. Ci sono ricerche come lo studio di percezione visiva, il rapporto tra occhio e mente, tra sfondo e soggetto in primo piano, la sua gestualità, la forma e la configurazione. Non sempre l'occhio e la mente vedono la stessa cosa. Basti pensare a Darwin e il suo studio sulla comunicazione non verbale attraverso le foto fatte al figlio.»
Una delle cinque sezioni della mostra presenta un connubio quasi onirico tra figure dei quadri di De Chirico e automobili del Museo dell'Auto di Torino, perché questa scelta?
«E' bellissima la nuova configurazione delle sale museali. L'Isotta Fraschini e la Temperino mi hanno fatto venir voglia di abbinare quelle auto mitiche ai manichini di De Chirico, che aveva definito Torino la più metafisica delle città italiane. Un incontro tra figure grandiose, la "violenza" tra elementi diversi che spinge l'osservatore a trovare il nesso.»
Nel dossier "Vetrine riflesse" i manichini sembrano fantasmi che irrompono nel mondo degli umani attraverso un gioco magico di specchi e riflessi, lei cosa cercava davvero?
«Una visione completa della realtà di quel momento. L'obiettivo della macchina fotografica coglie tutti i particolari, l'occhio no, si concentra sull'essenziale. Un nostro antenato minacciato da un orso, fissava il predatore disinteressandosi dello sfondo. Le vetrine ci donano senza alchimie tecnologiche la realtà di quell'istante di esistenza.»
Nadar nell'Ottocento fotografava Parigi dall'aerostato. Era amico e sostenitore degli "impressionisti": Monet, Renoir, Sisley, Cézanne, Degas. Ma cosa legava questi pittori alla fotografia?
«E' una citazione di Nadar: "Il lato psicologico della fotografia". Frequentava esponenti del mondo delle arti figurative, tra cui gli impressionisti. Era l'epoca, la metà dell'800, dell' "invenzione del ritratto fotografico", forse ispirata dai ritratti di quei pittori. Alcuni fra gli impressionisti fotografavano i soggetti che intendevano dipingere, poi davano vita al quadro. C'era una ricerca profonda degli stati emotivi dei personaggi rappresentati. Attenzione, quindi, per le emozioni e la psiche; i sogni e la malattia mentale, il concetto di "incomunicabilità" e di "dramma interiore", la solitudine e l'angoscia.»
E' giusto dire che nel dossier "Istantanee" c'è l'urgenza, quasi l'ansia di fissare l'oggetto scelto prima che sparisca per sempre?
«Sì, c'è la volontà di fermare il momento. Immaginiamo un nuvola che passa nel cielo, poi si ferma e assume una certa forma. Basta un colpo di vento e quella forma non sarà più la stessa. Come ho già detto, la macchina fotografica ferma quel momento con tutto ciò che c'è, prima che si perda definitivamente.»
"Psicofoto in bianco e nero" è il quarto dossier. C'è l'eterno scontro-incontro tra luce e oscurità; un gioco tra forme, volumi, contrasto, e poi....?
«Il bianco e nero li vedo al di là di ciò che li divide, ma colgo di più l'interazione tra loro che compone la configurazione completa. Il mondo è a colori; la foto in bianco e nero dona al fotografo la possibilità di creare qualcosa che in natura non c'è.»
Siamo giunti alla fine del nostro percorso nelle sale della mostra. Sull'ultima parete le foto di "Ombre lunghe in rue Joubert". Una strada, la gente che passa, le ombre....
«Già, mi sporgevo da un balcone al terzo piano e fotografavo la gente che andava e tornava dal lavoro transitando sull'acciottolato della via. L' "ombra" la ritroviamo in filosofia come nelle religioni e nella psicoanalisi, e ovviamente penso a Jung. Per Jung, infatti, dobbiamo imparare ad accettare l'ombra che ci segue, cioè quell'altro nostro sé sconosciuto che serve conoscere e, appunto, accettare.»
Un'ultima domanda, professoressa Giani Gallino, è di prammatica: cosa le dà la fotografia?
«Il piacere visivo: vedere immagini, scoprire quello che altrimenti occhio e mente perderebbero irrimediabilmente. Fotografare è selezionare un frammento della realtà e coglierla. Come psicologa elaboro quantitativamente e qualitativamente il materiale di cui entro in possesso; come fotografa cerco di cogliere i particolari che, assieme ad emozioni e sentimenti, i soggetti che scelgo narrano e lasciano trapelare.»