Il futuro prossimo e remoto del nostro mondo

Intervista a Franco Livorsi* a cura di Paolo Bartolini

Professor Livorsi, l'egemonia angloamericana sembra in crisi e difficilmente potrà imporsi ancora a lungo su tutto il pianeta, tanto più adesso che l'emergere dei nuovi grandi attori internazionali (Cina, Brasile, Russia, India) annuncia l'imminenza di un mondo multipolare. Quale futuro intravede, nel breve e medio termine, per i nuovi equilibri geopolitici?

Sembra che si diano due letture fondamentali dello stato del mondo prossimo venturo. Una è quella espressa nel famoso libro di Michael Hardt a Antonio Negri "Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione" (2001, Rizzoli, Milano, 2002), che ebbe molta eco e che a suo tempo recensii anch'io sul "Pensiero politico", la rivista degli storici delle dottrine politiche; l'altra è quella più antica, ma anche più "collaudata", legata ai teorici della ragion di stato e che nel XX secolo può essere approfondita attraverso le opere di Friedrich Meinecke come "Cosmopolitismo e Stato nazionale" (1908 e Sansoni, Firenze, 1975) e in tanti altri autori, e che nella sua versione democratica informa di sé i pensatori del federalismo europeo, in un arco che idealmente va però da Per la pace perpetua di Immanuel Kant (1795) al pensiero di Altiero Spinelli, poi di Mario Albertini, sino a Corrado Malandrino, Sergio Pistone, Lucio Levi e altri. Su ciò si può vedere, dopo il fondamentale testo d'inquadramento dottrinario di Corrado Malandrino "" (Carocci, Roma, 1998), il bel libro di Lucio Levi Crisi dello Stato e governo del mondo (Giappichelli, Torino 2005).
L'interpretazione di Hardt e Negri (ma ovviamente è soprattutto di Antonio Negri), risente dello strutturalismo o "sistemismo" sociale già di tipo marxista operaista (ora evidentemente "ex operaista"). Per esso tutte le contraddizioni - salvo quella economico sociale "irriducibile" un tempo incarnata dai lavoratori salariati (o operai) e ora dalle grandi masse dei poveri della terra ("moltitudini") - sono considerate "intrasistemiche", ossia parti dialetticamente composte o componibili di un unico insieme o sistema, come fossero pesi e contrappesi di un solo organismo, che si tengano reciprocamente in equilibrio, anche conflittuale, ma sempre unico-unitario. Perciò quello che sembra a noi il disordine mondiale del tempo della globalizzazione sottenderebbe in realtà un ordine intrasistemico, capitalistico, come se una mano invisibile lo regolasse. Perciò alla domanda se la fine del duopolio sovietico-americano non segnasse l'inizio di un'ingovernabilità mondiale, Hardt e Negri rispondevano di no, nel senso che vi sarebbe tutto un complicato sistema di poteri a rete, formato da taluni stati, le multinazionali, le stesse agenzie ONU e così via, che costituirebbe una sorta di disordine ordinato, o di ordine naturalmente disordinato, proprio del capitalismo d'oggi, che solo la rivoluzione mondiale dei dannati della terra potrebbe spezzare.

L'interpretazione degli altri autori cui ho accennato per contro mette sempre in alternativa, come già Hobbes quattro secoli fa, caos autodistruttivo "naturale" ("homo homini lupus") e autorità statale. Caduto il sistema delle potenze statali, che anche tramite guerre parziali si riconoscevano reciprocamente - ordine saltato nel 1914, e tanto più nel 1945 - ritenuto imprescindibile dal notevole politologo, pur ex nazista, Carl Schmitt, la terra sarebbe precipitata nell'anomia, con fine del diritto internazionale (su ciò è da vedere il suo imprescindibile libro "Il nomos della terra nella crisi internazionale dello jus publicumeuropeo" (1950). In pratica si potrebbe ormai uscire dalla catastrofe, strisciante o nucleare, solo con lo Stato mondiale, affermano i federalisti "europei" da Altiero Spinelli a Lucio Levi. Si tratterebbe di costituire in forma liberaldemocratica "Stati di Stati", Stati pluricefali, via via continentali, in vista della mondializzazione federalistica dello Stato stesso. È più o meno esplicita l'idea che lo scacco dell'internazionalizzazione liberal-federalista porterebbe altrimenti, prima o poi, alla terza guerra mondiale: per arrivare allo stesso risultato per via imperialistico autoritaria (nel che sarebbe stato il senso - o non senso perché per curare il mondo malato lo si ammazzava - del secondo conflitto mondiale).
Personalmente ritengo più persuasiva la seconda ipotesi, naturalmente in senso democratico federalista, continentale e mondiale. A differenza dei federalisti vedo però più difficoltà "profonde" nel far sorgere "Stati di Stati" dove manchino grandi miti condivisi e aggreganti, un comune finalismo, una religione e lingua più o meno comuni. In tal senso la mia paura è che la mondializzazione si attui o in forme neoautoritarie oppure tramite forme di caos crescenti che suscitino il bisogno - tra i popoli - di tali processi di unificazione concordata, federativa, ma dopo catastrofi parziali. Per tale ragione il palese declino della potenza mondiale americana, a un quarto di secolo dal crollo di quella sovietica, potrebbe avere risvolti assai pericolosi. In effetti stanno risorgendo o sorgendo grandi potenze che sono in grado di controbilanciare gli Stati Uniti, e ciò è persino un bene. E può pure darsi che s'instaurino o durino forme di cooperazione conflittuale tra le stesse, in tal caso nel senso detto da Hardt e Negri (l'equilibrio squilibrato, ma reale, del sistema mondiale globalizzato). Ma spesso i troppi centri di potenza quasi mai comunicanti, nella storia hanno reso ingovernabili le crisi, portando catastrofi ciclicamente più spaventose. Queste catastrofi per ora non sono né previste né prevedibili, ma siccome è molto difficile che il genere di policentrismo tra grandi Stati verso cui andiamo, e in cui in parte già siamo, possa governare sempre le crisi calde - come le aree di produzione dell'energia in specie del Medio Oriente, la bomba demografica afroasiatica e il declino ecologico di tutto il pianeta - non sarei stupito se un giorno, che credo verrà quando saremo tutti morti (ma non si sa mai), si scivolasse in un terzo conflitto mondiale e nucleare. L'unificazione politica mondiale in tal caso arriverebbe, ma tramite miliardi di morti che solo i pazzi potrebbero mettere nel conto. La speranza è che la gravità e persino l'aggravarsi dei fattori di crisi, ma senza catastrofi assolute, spinga i popoli all'unità democratica federativa. Anche ciò credo sia possibile. Diciamo che personalmente darei la possibilità, rispetto allo scenario catastrofico estremo tra dieci o cinquant'anni, al 50%.

In un suo libro davvero controcorrente ("Politica nell'Anima. Etica, Politica, Psicoanalisi", Moretti Vitali, 2007) ha tentato di illuminare la questione relativa al rapporto tra psiche, religione e politica, rifiutando il riduzionismo del materialismo storico. Qual è, secondo lei, il limite principale dei movimenti riformisti e rivoluzionari che hanno tentato, vanamente, di opporsi allo strapotere del sistema capitalistico?

Su questi temi rinvio al libro da Lei citato, "Politica nell'anima", ma anche al "seguito", il mio libro "Sentieri di rivoluzione. Politica e psicologia dei movimenti rivoluzionari dalXIX al XXI secolo" (Moretti Vitali, 2010). Di ciò mi sono occupato anche in una fase recente, in una rivista che io stesso dirigo, per l'editore Falsopiano di Alessandria, "Anima Terra. Psicologia, ecologia, società", nel n. 2 del 2012, nel saggio "La questione del mancato superamento del capitalismo alla luce del materialismo storico e della psicologia analitica" (pp. 175-21). In questo saggio invece di interrogarmi, come si faceva in decenni passati, sulla "rivoluzione proletaria mancata", ho provato a interrogarmi sul capitalismo "riuscito". Perché ha tenuto così a lungo anche in circostanze assai calamitose per esso e infine ha trionfato a livello planetario? - In apparenza per la potenza dell'economia o anche delle relazioni socioeconomiche; alcuni, come il vecchio György Lukács in certe interviste, aggiungevano l'inefficacia dell'economia di piano, alternativa ad esso. Questo a me è parso al tempo stesso vero (a conferma della scorza esterna del materialismo storico, marxista ma pure dell'economia classica, o "neoclassica", liberal-capitalistica), e falso (contro lo stesso). E' vero, infatti, che i punti alti del capitalismo hanno tenuto e che il collettivismo non è riuscito ad essere alternativo ad esso, bensì emulo in tono minore, al ribasso, in certo modo come surrogato dove esso non era riuscito non dico ad arrivare, ma a decollare in grande stile. Ma poi bisogna spiegare perché tanto nel 1914 quanto nel 1939 (in tal caso dopo la crisi del '29) sia arrivata la guerra mondiale; e poi perché invece dell'attesa autoriforma del capitalismo di stato o collettivismo, che molti tra noi attendevano da tanti decenni e su cui, all'avvento di Gorbaciov, quando ormai non ci credevano più, erano tornati a sperare, sia tornato il capitalismo più puro, da Mosca a Pechino. Ciò è accaduto, a mio parere, perché - contro Marx e il materialismo storico - il "feticismo della merce" non è una conseguenza del capitalismo, ma la sua prima matrice, il segreto della sua forza. Il capitalismo è un mito interiore collettivo, è una fede, è la religione di Mammona, del denaro e del potere il più possibile e a qualsiasi costo. Ma questo è un dato di mentalità collettiva "profonda". In certo modo il detto dei Romani antichi dopo la subordinazione della Grecia mi pare del 165 a.C. per cui "Graecia capta ferum inimicum cepit" è valso nella relazione tra socialismo e capitalismo. Il socialismo, anche quando ha sconfitto il capitalismo (comunismi) o comunque è giunto a governarne aree chiave del capitalismo (socialdemocrazie) è rimasto succube del capitalismo. Ha teso sempre o in pochissimi anni ad emularlo invece che a sostituirlo. I comunismi miravano a costituire élites del potere che facessero per conto dello Stato le stesse cose, per produrre sviluppo quantitativo, del capitalismo (il che finita l'era tremenda dei plotoni d'esecuzione, che non poteva durare sempre, risultò pure impossibile); le socialdemocrazie miravano a fare un capitalismo dal volto umano, uno Stato "del benessere" (welfare state), riuscendovi ma paradossalmente rafforzando il loro nemico.

Naturalmente si potrebbe pure pensare che fosse possibile creare volontaristicamente la mentalità nuova. Questo fu il tratto forte del socialismo occidentale rivoluzionario e del comunismo di sinistra, dal "sulfureo" ma creativo anarcosindacalista Georges Sorel, che odiava tanto il mondo tradizionale liberal-capitalistico da preferirgli apertamente non solo le camicie rosse ma pure quelle nere, alle varie famiglie del marxismo "occidentale", dal Lukács protomarxista del primo dopoguerra ad Antonio Gramsci. Quest'ultimo, anche nella fase più matura (Quaderni del carcere), concepiva il comunismo come una specie di religione secolarizzata, una contro-società: o come sistema dei consigli operai (1918-1920) o, dal '21 tatticamente, e dal '25 in poi strategicamente, come partito comunitario e rivoluzionario di sinistra, partito della palingenesi della coscienza sociale, "Nuovo Principe" in tal senso (anche se non solo per questo). Ma anche l'idea di fare una specie di comunità della rinascenza socialista si scontrò con la realtà effettuale. L'idea del "partito nuovo", in cui ancora Berlinguer credeva così fortemente, confliggeva troppo col burocratismo della "casa" comunista, e ancor più con l'influsso socioculturale di tutto il mondo democratico borghese e capitalistico diffuso. L'Enrico, Berlinguer, è stato, in fondo, una figura tragica, che voleva mantenere una forma partito ormai obsoleta, comunista, proprio mentre puntava al compromesso storico con tutti i "democratici". In sostanza in casa comunista, sin da Gramsci, si voleva realizzare, tramite il PCI, il contenitore di una nuova eticità, che non poteva essere lo Stato come per Hegel o Gentile, ma appunto il "partito nuovo", che prefigurava la società fraterna e senza classi da fare. Il progetto fallì e finì male. La potenza che fa una nuova etica non può essere data dalle relazioni di potere di segno economicistico o istituzionale, ma solo da qualcosa che avviene, o non avviene, nella coscienza più intima dei singoli come delle masse.

È noto il suo apprezzamento per il pensiero di Carl Gustav Jung. Quale contributo può dare la Psicologia Analitica a un ripensamento del nostro modo di vivere ai tempi della globalizzazione economica?

Ho detto che il mondo può cambiare solo attraverso una profonda "metànoia", ossia attraverso una rinascita, interiore collettiva, nelle élites politiche come a livello diffuso. Ogni vera rivoluzione, che sia riuscita, e che sia durata nei secoli, e che persino se vinta abbia "germinato" per il futuro, è stata prima culturale e solo dopo economica e sociale. La coscienza viene "prima" e non dopo i processi d'innovazione sociali e politici. Non c'è rivoluzione nelle istituzioni o nei rapporti sociali che non sia stata prefigurata, a livello almeno di quel vasto gruppo di persone che influiscono sulla coscienza diffusa dei concittadini partecipi alla via pubblica (influenti, però, non per mestiere, da maestrini o professorini, ma "di fatto", in mille forme di ascendente sugli altri). Così è stato col protestantesimo puritano, che anche suo malgrado preparò la "gloriosa rivoluzione" inglese del 1689. Così per l'illuminismo, che preparò rivoluzione americana e rivoluzione francese. Così non è stato per il socialismo, in termini economico-sociali ma persino culturali, dal momento che è stato più materialista, più darwinista, più positivista dei suoi stessi avversari sociali. È stato succube dei modi di pensare dominanti.

Ora in questo campo la psicologia junghiana ha molto da dire sia in termini storico interpretativi che storico trasformativi.

In termini storico interpretativi - che io mi sono studiato di chiarire sin dal mio libro Psiche e Storia. Junghismo e mondo contemporaneo (Vallecchi, Firenze, 1991), e in seguito (si veda in proposito il mio saggio "Archetipi e storia contemporanea nella psicologia analitica", in "Rivista di psicologia analitica", n. 33, 2012, pp. 199-224) - lo junghismo può dare un buon contributo, anche se siamo ai primi passi. Esso non si limita a enfatizzare il ruolo dominante delle idee nella storia come l'idealismo, ma mira a far emergere quello che emoziona, appassiona, fa sognare le persone. Nessuno si è mai fatto ammazzare per un'astrazione. Questa - l'astrazione - se efficace si caricava di una serie di aspettative forti che il singolo riteneva meritevoli del suo impegno continuativo e, se necessario, della sua stessa vita. Tra parentesi il mondo d'oggi è in piena decadenza perché tutte le grandi narrazioni del passato - si chiamassero liberalismo, radicalismo, socialismo, comunismo, fascismo, o solidarismo cristiano - sono o morte o tramortite o "vecchiette" tenute in vita da certi farmaci mirati, con molte difficoltà. È venuto meno tutto quello che si accompagnava a tali idee generalizzatrici. È venuto meno il "mito vivo" di ogni "ismo".

Ora lo junghismo, in sede storico interpretativa, ci aiuta a cogliere non solo le grandi idee che accompagnano e soprattutto anticipano la nuova storia, ma anche i miti vivi, le immagini potentemente suggestive, l'eros e pàthos, che le alimentava, ora empatico ed ora purtroppo anche di odio, e senza di cui le idee, tanto più nella versione necessariamente massificata, sarebbero state imparaticci per scolaretti. Non occorre essere junghiani per fare o capire i miti vivi, come non era necessario essere marxisti per fare storia dal punto di vista del materialismo storico. Ad esempio a me pare che taluni storici come George Mosse (per il nazismo), Emilio Gentile (per il fascismo), o il Mario Isnenghi (storico del mito della grande guerra e poi di Garibaldi stesso), siano già in tale lunghezza d'onda. Pure il grosso libro "Paranoia. La follia che fa la storia" (Bollati Boringhieri, 2011), del mio amico Luigi Zoja, che enfatizza il dinamismo paranoico nella spiegazione della storia contemporanea, sta in tale contesto. Nell'ultimo caso siamo di fronte ad uno dei maggiori junghiani in Italia.

Ma il dato più importante è quello che io chiamo storico trasformativo, e infatti è alla base della mia rivista "Anima e Terra", ma naturalmente di ben altro. A me sembra evidente che la maggior fabbrica del futuro ha fatto fallimento. E a me dispiace moltissimo. Il marxismo, che Gramsci voleva trasformare da pretesa scienza in una concezione del mondo che fosse una specie di rivoluzione spirituale, come la Riforma di Lutero e Calvino ma senza Dio e nel nome dei proletari, è giunto al capolinea. Anche se avrà magari movimenti di nostalgia forti per chissà quanti anni, creando pure nuove scuole. Ma ha perso "la spinta propulsiva" della storia (come nel 1981 aveva detto Berlinguer, ma del solo comunismo sovietico). E' defunto. Noi ci troviamo nella stessa situazione in cui si era trovato Marx quando era o sembrava fallito il mondo liberale o repubblicano della rivoluzione francese, l'attardarsi sul quale a suo dire - come diceva nel 1849 in "Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850" - sarebbe stato fatale ai rivoluzionari ancora nel 1848 francese. Solo che adesso la concezione del mondo esauritasi non è più quella repubblicana democratica o liberaldemocratica come al tempo di Marx e dei successori, ma proprio quella marxista, comunista e socialista, per quanto gli epigoni possano attardarsi in essa.

Ora a questo punto si danno due possibilità.

Ci sono i teorici del post-moderno come Jean-François Lyotard e come Gianni Vattimo (ma quest'ultimo sembra da alcuni anni attratto da una specie di ritorno romantico alla rivoluzione o al comunismo, che però forse è solo "polemico"), i quali dicono: «abbiamo smesso di essere bambini, ogni rivoluzione è impossibile, la storia è finita, diventiamo "adulti", smettiamo di credere nella Befana della rivoluzione e cerchiamo di fare il poco di buono che possiamo fare». Ragionano più o meno come Voltaire alla fine del suo splendido "Candido" (1759). Solo che poi arrivò la Rivoluzione francese.
Ma ci sono anche quelli che come me pensano che morto un "ismo" se ne deve per forza fare un altro, che sia la negazione ma anche la ripresa dei problemi irrisolti da quello fallito. E che ciò accada sempre, ci piaccia o non ci piaccia. Qui non posso soffermarmi tanto su ciò, ma mi sentirei di dimostrare che anche gli "ismi" del XX secolo giunti più o meno al capolinea che ho citato, nessuno escluso - liberalismo, fascismo, comunismo e socialismo, eccetera - erano stati superatori-eredi "d'altro" sviluppatosi tra Rivoluzione francese e tutto il XIX secolo. C'è dunque un fantasma che si aggira per il mondo. Ma quale?
Oltre a rispondere mi sono chiesto quali dovrebbero essere le sue "attaccature" in base a tutto quello che è accaduto. Anche il marxismo aveva avuto più attaccature, e Lenin aveva scritto un bel saggio, mi pare nel 1913, per dimostrare che esso aveva sintetizzato socialismo "francese", economia classica "inglese" e filosofia classica tedesca, ossia la linea Babeuf-Blanqui ma pure Proudhon, le teorie economiche del valore lavoro e plusvalore di Smith e soprattutto Ricardo, e l'idealismo dialettico hegeliano, naturalmente "raddrizzandoli" o rovesciandoli. Ora io ipotizzo che il nuovo "ismo" rivoluzionario dovrà sintetizzare la psicologia analitica junghiana, che ci fa capire bene il nesso miti-storia, ma più ancora l'istanza di autorealizzazione interiore e spirituale; una connessa, e non connessa, nuova religiosità, e l'ecologismo. C'è una dimensione d'infinità, d'eternità e empatia da riscoprire nella nostra psiche, soggettiva e intersoggettiva, e c'è una natura come corpo della psiche, casa dell'essere, grande madre da risanare per risanare noi stessi. E c'è un solidarismo, erede del socialismo, da riscoprire nella loro ombra.

Lei ha scritto che "i problemi irrisolti del socialismo si pongono sul terreno dell'ecologismo". Può approfondire questa affermazione?

Il socialismo mirava ad un'economia non più basata sulla formula che Karl Marx nel suo Capitale (I, 1867) considerava come il DNA del capitalismo stesso: la formula "DMD", per cui si investe Denaro al solo fine di fare, attraverso la Merce (in realtà più merce) più Denaro, trasformando il mezzo (il soldo) in fine. Questo era anche detto "feticismo della merce" perché faceva della moltiplicazione continua della produzione, dell'accrescimento dei prodotti, il fine, senza il quale non ci sarebbe, in termini reali, "più denaro", ossia profitto. Il capitalismo concepiva e concepisce perciò tutto come merce, a partire dall'uomo, che deve vendere l'energia umana sua propria (forza lavoro) al miglior offerente, cessando con ciò di essere persona, anche se questo la persona sotto sotto o apertamente lo contesterà sempre, per farsi un "utilizzabile". Il socialismo, per vie in vero risultate o inefficaci o interne al capitalismo, voleva realizzare una società fraterna, senza classi (post-capitalistica).

Non voglio ripetere le ragioni dello scacco del post-capitalismo: l'aver sostituito - come socialismo o comunismo - il potere dei padroni semplicemente con quello della burocrazia di stato; l'aver condiviso una visione quantitativa dell'economia, e per ciò l'idea dello "sviluppo illimitato"; l'aver condiviso il materialismo economico e persino morale della borghesia; l'aver rinunciato a superare il capitalismo sperando vanamente di umanizzarlo; l'essersi spesso fatti complici o della politica di potenza dello stato o dell'imperialismo economico, o di entrambi; l'essere stati - come comunisti - tanto spesso liberticidi a livello di Stato.

M'interessa invece sottolineare che la visione ecologista, tanto più se connessa ad una nuova visione dell'autorealizzazione della psiche (di sé) e della sacralità della natura, risponde alle istanze socialiste richiamate. Combatte il feticismo della merce, ossia il produrre per il profitto, come vizio interiore capitale, che genera il capitalismo e non è generato dal capitalismo. Si emancipa dunque da un servilismo verso la produzione illimitata, facendo di ciò non già una variabile indipendente, ma dipendente da altre istanze, quali il non rovinare l'habitat, e per ciò il decelerare la produzione, effetto già dell'optare per le sole energie rinnovabili e pulite come acqua e vento. Mira non già a domini di classe, ma ad un comunitarismo solidale, ad una visione cooperativa e di piccola produzione. L'idea della buona qualità della vita dà al fine di emancipazione il carattere di istanza non connessa a un avvenire remoto, ma all'impegno quotidiano. Certo l'approccio richiede una sorta di conversione collettiva e per ciò stesso una visione personalistica e spirituale, tendenzialmente panteistica e solidale, della natura e della società.

Che caratteristiche dovrebbe avere un'alternativa sociale all'attuale civiltà del consumo e dello spreco?

Condivido con Marx la diffidenza per quella che definiva, contro gli epigoni del grande socialismo utopistico, "l'osteria dell'avvenire". Non possiamo prefigurare tutto. Posso solo abbozzare talune istanze e idee.
Non possiamo più lottare contro l'economia di mercato perché ormai sappiamo che quella dei burocrati di stato funziona pure peggio e ha una vocazione liberticida. L'idea di avere libere istituzioni in un'economia statizzata, cui ad esempio io avevo creduto per trent'anni, si è dimostrata un'illusione. Oggi rivaluterei il concetto di democrazia industriale in alternativa a quello di statizzazione. Dovremmo tendere a una società "senza padroni" (non dello "Stato padrone"), che io concepisco come una rete di libere cooperative e anche di libere professioni, artigiane e non. In questa prospettiva tutte le forme di possibile controllo operaio della produzione, non più di tipo antagonistico,ma critico e partecipativo, con condivisione degli utili e rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione, andrebbero incoraggiate. Inoltre dovrebbe esserci una cura estrema per la buona qualità della vita e per ciò - oltre che il diritto alla salute per tutti, da salvaguardare e ampliare - dovrebbe esservi il diritto a un habitat quanto più possibile immune da inquinamento. Dovrebbe esserci un'opzione sempre più forte per le energie dolci e rinnovabili. Anche pagando qualche prezzo, in termini di decelerazione dello sviluppo, almeno nei settori meno indispensabili per stare sul mercato mondiale. La scuola secondo me non dovrebbe solo essere attiva, ma "scuola del lavoro", sempre professionalizzante. Il pieno possesso della lingua nazionale e pure della lingua inglese, una cultura informatica, dovrebbero essere dati comuni e perseguiti con ostinazione sin dalla primissima scolarizzazione. Credo che dovrebbe essere abolito il valore legale dei titoli di studio, mettendo fine alla distribuzione di titoli svalutati, basata sull'abbassamento del livello degli studi. Dovrebbe essere posta una cura massima per la divisione e bilanciamento tra i tre poteri dello Stato, senza di che tutto è putrido. Credo pure che la governabilità dovrebbe essere un valore forte, anche perché la globalizzazione accresce l'anomia. Personalmente sono pure favorevole alla forma di governo che c'è in Francia: doppio turno di collegio ed elezione del presidente della repubblica, che nomina primo ministro il capo del partito di maggioranza relativa e coopera con lui; so bene che molti non sono d'accordo, ma di ciò, per complesse ragioni che qui non posso illustrare, sono assolutamente convinto Il federalismo è importantissimo non già o non tanto nello Stato, su cui ha un senso dubbio e spesso controproducente, quanto per unire ciò che è diviso, ossia per fare "Stati di Stati", a partire dall'Unione Europea, sul modello degli Stati Uniti d'America. Sono contrario a qualsiasi guerra non bandita almeno dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sono favorevole a valutare caso per caso anche quelle sanzionate dall'ONU. Sono contrario a ogni imperialismo, ma credo che gli Stati possano evitare i disastri solo andando via via a formare autorità comuni "super partes", mentre trovo illusoria una visione dell'indipendenza dei grandi Stati senza alcun coordinamento permanente. Ritengo, infine, che sia importante riprendere tutta la battaglia mazziniana per i "doveri dell'uomo", enfatizzando per essa la stessa dimensione religiosa, ma in una chiave non confessionale e rinnovata in senso interiore e di sacralizzazione della natura. Sono persuaso che la dimensione religiosa, dopo la disfatta della forma secolarizzata della religione stessa (comunismi) abbia un grande presente-avvenire, ci piaccia o non ci piaccia. Questa grande spinta può giocare o nel senso del "futurismo del passato", cioè reazionario, come nei fondamentalismi emersi in tutti e tre i monoteismi, oppure come istanza redentiva rivolta all'avvenire. In tal caso il nesso Psiche-Sacro-Natura mi sembra il trinomio su cui lavorare. In generale credo che l'Occidente per rinascere avrebbe bisogno di qualcosa, che vada nella direzione or ora accennata, della portata della Riforma del XVI e XVII secolo, ma in un senso appunto psicologico, ecologico e sociale. Ma queste cose non si possono decidere solo a tavolino. Ciascuno può però cercare di portare una piccola pietra. Io mi sforzo di farlo.

*Franco Livorsi è professore di Storia delle dottrine politiche. Specializzato anche in Psicologia, è socio onorario del CIPA (Centro Italiano di Psicologia Analitica). Tra i suoi numerosi libri ricordiamo: "Il mito della nuova terra" (2000), "Politica nell'anima" (2007), "I concetti politici nella storia. Dalle origini al XXI secolo" (2008), "Sentieri di rivoluzione" (2010), "L'avventura di Jung" (2012).

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