I fantasmi della psicologia. La crisi di una professione – Jerome Kagan

La dico pane al pane, così ci capiamo subito: dare di matto in qualche dove sperduto delle montagne andine mica è lo stesso che uscire di zucca nel bel mezzo della City londinese. Capite bene che vale anche con il doc, il disturbo bipolare e la depressione, che un conto è se capitano a un americano in carriera di Manhattan un altro se a un nativo della Papuasia. Il parametro di misurazione del benessere individuale cambia col cambiare delle latitudini e - quindi - della cultura: tenere conto del setting (del contesto) di riferimento fa la differenza analitica. A sostenerlo è Jerome Kagan - professore emerito alla Harvard University - in un testo di tesi-antitesi-sintesi psicologica, di taglio accademico ma decifrabile anche dai lettori più volenterosi. Specifica Kagan, a pagina 12 de “I fantasmi della psicologia. La crisi di una professione” (Bollati Boringhieri, 2014):

“Quel che manca in buona parte della ricerca è una considerazione attenta delle influenze del contesto immediato in cui vengono raccolte le misurazioni del cervello, del comportamento o delle risposte verbali. Pare che molti psicologi considerino ininfluente per le loro osservazioni se gli informatori sono soli, con un esaminatore estraneo o un amico, in un luogo familiare o sconosciuto. Inoltre, quando indagano sul rapporto tra le varie misurazioni ignorano l’influenza continuativa dell’esposizione differenziale ai setting che accompagnano una particolare classe sociale o cultura. Troppi articoli presumono che un risultato riscontrato tra quaranta studenti bianchi di un’università del Midwest, che hanno risposto a istruzioni visualizzate sullo schermo di un computer all’interno di una stanzetta senza finestre, troverebbe conferma se la stessa procedura venisse proposta da un vicino di casa a un gruppo di sudafricani cinquantenni, in una grande sala della chiesa che frequentano a Capetown”.

Chiaro, no? Rilevare stati d’animo e comportamenti sulla base esclusiva delle dichiarazioni dei soggetti intervistati o assegnare un’origine mono-causale (quasi sempre genetica) alle manifestazioni di tipo psichiatrico, sono semplificazioni (scorciatoie analitiche, inciampi) che una scienza (psicologica) degna di tal nome non deve in alcun modo imboccare. Per una valutazione esatta degli “stati mentali” non può essere tralasciato il ruolo determinante che giocano l’appartenenza culturale, la collocazione sociale, le storie di vita di un individuo. Ancora Kagan, a rafforzo del concetto e in fase (construens) di bilancio:

“Una psicologia riformata dovrebbe aggiornare il motto delfico: conosci te stesso in ogni contesto”.

Ne deriva un pamphlet poderoso (quasi 300 fitte pagine) che aldilà del sottotitolo ammonitorio – “La crisi di una professione” – si (im)pone anche come manifesto programmatico e atto d’amore insieme nei confronti dell’indagine psichica. Costa non poco - 26 euro - ma li vale uno per uno e soprattutto gli addetti ai lavori non possono mancare di leggerlo.

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