I famosi giochi di luce di Robert Wilson

 

Il Napoli Festival Italia apre i suoi battenti con Robert Wilson al Teatro Mercadante con The Makropulos Case. La storia, tratta dalla commedia L’affare Makropulos dello scrittore e drammaturgo ceco Karel Čapek, narra le avventure di una donna che, per aver assunto una pozione magica, si è incarnata nel tempo in vari personaggi.

 

Nel 1585 la figlia di Ieronimo Makropulos – medico greco alla corte “esoterica” dell’imperatore asburgico Rodolfo II − fu costretta a bere una pozione magica, creata da suo padre per lo stesso imperatore, che si diceva garantisse vita eterna. La donna dalle molteplici identità ha attraversato i secoli, vivendo per ben 337 anni − con il nome di Emilia Marty, Ellian MacGregor, Elina Makropulos, Eugenia Montez, Elsa Müller e Ekaterina Myškin. Ma una volta scomparso l’effetto della pozione, per paura di invecchiare e morire decide di ritornare a cercare la formula dell’elisir nella città da cui tre secoli prima era partita. La protagonista si interroga sul senso dell’eternità e si convince che l’uomo non può vivere per sempre perché «non può amare per trecento anni. Né sperare, né creare, né osservare per trecento anni. Non ce la fa. Tutto viene a noia. Sia l'esser buoni che l'esser cattivi. Cielo e terra vengono a noia. E poi ci si accorge che in realtà non c'è nulla. Nulla. Né il peccato, né il dolore, né la terra, assolutamente nulla». La longevità le ha permesso solo di cristallizzare la sua bellezza e sensualità insieme alla sua voce da cantante, che ha perfezionato, nella tecnica, nei secoli.

 

Si tratta di una storia noir, con un linguaggio da detective story, intrisa di enigmi, depistaggi e colpi di scena. Un racconto dalle tinte forti ben incorniciato in un contesto atemporale. Su un gigante schermo nero, posto sul fondo, si leggono le iniziali E M, in successione, quasi come a voler sottolineare la presenza ciclica di Emilia / Ellian / Eugenia / Elsa / Ekaterina Makropulos nel corso dei secoli. Le stesse iniziali, in sequenza “E M …E Me… e Mee” si illuminano al passaggio sulla passerella − come in un musical − di tutti i personaggi all’inizio della pièce.

 

Tra “bagni di luce”, diversi per intensità e colore in base alla psicologia del momento e dei personaggi, Wilson dilata i tempi e rende la storia sempre attuale. Intrappola i suoi personaggi in una recitazione impersonale, con movenze da marionette disarticolate e figurine da carillon, tale da dare spazio alla più arguta ironia. Si tratta di un chiaro riferimento a R.U.R., opera più nota di Čapek con la quale il drammaturgo coniò il termine robot, derivato dal ceco robota, cioè schiavitù, per designare un androide in grado di svolgere lavoro pesante al posto degli esseri umani.

 

Tutte le figure risultano ben disegnate, tutte vestite con colori accesi e col volto coperto di cerone bianco, come maschere dai lineamenti freddi del teatro giapponese. L’unica a vestire di nero è la protagonista, la convincente attrice ultraottantenne, star del teatro boemo, Soňa Červená. Al suo fianco Miroslav Donutil (Jaroslav Prus), Pavla Beretová (Kristina) e Milan Stehlík (Hauk-Šhendorf).

 

Forte il contrasto tra il racconto delle didascalie enunciate dall’uomo col bastone (Vladimír Javorský) e l’allestimento espressionista di Wilson. Di effetto la verticalità dell’allestimento con pile di cartelle d’atti processuali che salgono fino alla graticcia e i personaggi che sbucano da botole, o che vanno su e giù in ascensore. Il “mago di Waco” gioca sulla diacronia più che sulla sincronia e inventa uno spettacolo raffinato ed elegante.

 

Ad enfatizzare il tutto contribuisce il lavoro del compositore Aleš Březina, che intesse tra loro musiche popolari e colte – tutte eseguite dal vivo – fino al “Carnevale di Venezia”. Il pubblico esulta, in un teatro da tutto esaurito.

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