Grazie alla parabola (ea mio padre) parlo l’arabo. Ma oggi le …

Il modo migliore per renderci conto dei cambiamenti è quello di osservare ciò che ci circonda, a volte è più efficace di libri, tesi, relazioni di sociologia, storia, statistiche, psicologia, urbanistica e quant’altro. Non so se ci avete fatto caso, ma avete mai visto antenne paraboliche o satellitari nelle vie del centro, nelle aree cosiddette “fashion”?  Assolutamente no, almeno non in bella vista. Mentre, basta attraversare la circonvallazione di Milano per ritrovarsi in uno scenario tipicamente da banlieue parigina o da ex quartieri-dormitorio statali di Praga.

Migliaia di apparecchiature agganciate su balconi, finestre e tetti, si sono negli ultimi decenni affacciate prepotentemente nello scenario urbano meneghino e non solo. Le prime antenne satellitari le notai per la prima volta a Praga durante una gita scolastica e rimasi colpita dal loro numero inquietante, mi chiedevo da cosa stessero fuggendo? Che cosa volevano vedere dall’altra parte?  All’epoca, gli abitanti dell’Est Europeo erano realmente affascinati e attirati da ciò che gli avveniva intorno, a pochi chilometri di distanza, la voglia di Occidente era tanta, si desiderava l’altro spiandolo, sperando un giorno di raggiungerlo per fare propria quella vita lì, appropriarsene.

Mi ricordo ancora mio padre quando nel 1992 si presentò in casa con antennista e parabola satellitare pronta per l’installazione.  Apriti cielo.

I miei vicini di casa non erano d’accordo, pensavano fosse un apparecchio spionistico, da “terrorista”, e poi rovinava la facciata del condominio…capirai.

Ma cusel’è chel rob lì???, chiedevano. Mi ricordo la sciura Eugenia, che abitava accanto a casa mia, che continuava a dire: ma non è che fai la spia?

Povero papà, per diversi giorni dovette ininterrottamente spiegare a ogni condomino giustamente incuriosito che serviva solo per poter accedere ai canali televisivi dei Paesi arabi (e non solo, volendo). Mio padre aveva pensato che sarebbe stato un modo per farmi conoscere il mio Paese d’origine, la mia cultura, la musica araba, le tradizioni che difficilmente avrei conosciuto guardando BIM BUM BAM o Non è la Rai (giuro che non lo vedevo, l’ho citato per rendere l’idea dei programmi dell’epoca!). E mai scelta fu più azzeccata.

In poco tempo non solo canticchiavo in arabo canzoni di artisti nuovi o vecchie glorie, ma riconoscevo attori, seguivo musalsalat (soap-opera) che nel mondo arabo sono un’istutuzione dei palinsesti televisivi, una programmazione sistematica con tanto di premiazioni a fine stagione, un po’ come i Grammies negli USA, ma soprattutto divenni una esperta di modi di dire, barzellette, slang, neologismi e proverbi.

Devo realmente ringraziare mio padre per questa scelta, perché se oggi parlo correttamente l’arabo, oltre alle lezioni impartite dal mio insegnante, ha giocato un ruolo fondamentale la televisione. Direi davvero una scelta lungimirante, che cerco di seguire anche io.

Si potrebbe dire che l’opposto è quello che avviene oggi, a molte donne arrivate grazie ai ricongiungimenti famigliari, che di professione fanno le “mogli-sforna bimbi” di uomini immigrati, almeno io le definisco così, spero non me ne vogliano. Sono migliaia, la maggior parte musulmane, barricate nelle loro case, chiuse in un mondo che non hanno mai lasciato realmente, tutto il giorno a guardare esclusivamente programmi arabi, sentire musica araba, telegiornali arabi, la Rai?, non sanno neppure cosa sia.

Si può dire che sono in Italia fisicamente, ma con la mente sono rimaste nel loro Paese d’origine. Personalmente ne conosco parecchie, e mi capita di rimanere allibita quando mi dicono di non saper ancora parlare l’italiano e magari risiedono qui da 6 o 7 anni. Iniziano ad avere difficoltà e desiderio di “aprirsi” quando i loro figli accedono all’istruzione elementare, vuoi perché devono mettersi in contatto con maestre e docenti, vuoi per aiutare e capire meglio il mondo e le esigenze dei loro figli. Forse nel loro caso le antenne satellitari rappresantano il mondo al quale vorrebbero con difficoltà rimanere aggrappate con le unghie, appartenere, ritornare, un modo per non sentirsi estranee, ma continuare a vivere in  un quotidiano virtuale e falsato, perché poi, basta affacciarsi alla finestra e scorgere il tram o l’autobus arancione sotto casa per rendersi conto di non essere a il Cairo o a Rabat, ma solo a Milano.


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