11 settembre 2015EDITORIALI
Il professor Giovanni Scattone alla soglia dei cinquant’anni diviene titolare di cattedra; insegnerà psicologia all’I.P.S.S.C.T. “Luigi Einaudi” di Roma. Ma non tutti sono soddisfatti per questo epilogo.
Il “prof” non è un docente qualsiasi, alle spalle ha un’oscura vicenda criminale: l’omicidio di Marta Russo. È il 9 maggio del 1997, la giovane studentessa della Facoltà di Giurisprudenza, mentre percorre i viali dell’Università romana “La Sapienza”, viene colpita alla nuca da un proiettile calibro 22. Dopo cinque giorni di coma, Marta muore. Le indagini sull’omicidio conducono a due assistenti della cattedra di Filosofia del Diritto dell’Ateneo: Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. I due giovani si proclamano innocenti. Il processo, nonostante le numerose falle della tesi accusatoria, si conclude in Cassazione il 15 dicembre 2003, al termine di 5 gradi di giudizio: Scattone è condannato in via definitiva per omicidio colposo a 5 anni e 4 mesi di reclusione e Salvatore Ferraro a 4 anni e 2 mesi per favoreggiamento. Non ripercorreremo quel calvario giudiziario per giocare agli innocentisti o colpevolisti. Ricordiamo soltanto che vi furono echi parlamentari sulla questione a causa del comportamento estremamente intimidatorio tenuto dagli inquirenti nei confronti degli indagati e dei testimoni.
Oggi la stampa torna a occuparsi di Scattone facendone una pietra dello scandalo. Lo si ritiene inadeguato a stare a contatto con dei giovani studenti. Gli si contesta il mancato pentimento per l’uccisione della ragazza. Ma Giovanni Scattone non sente di scusarsi per qualcosa che nega di aver commesso. Continua a proclamare la sua innocenza e tutti, media compresi, dovrebbero tenerne conto anziché stare a soffiare sul fuoco dell’indignazione popolare. Resta il fatto che Scattone oggi sia un uomo libero che ha il diritto di tornare a vivere pienamente la sua vita. E c’è il fondato sospetto, vista la condotta poco ortodossa degli inquirenti, che sia stato un cittadino ingiustamente perseguitato dalla macchina della giustizia. Una civiltà del diritto, come la nostra, non dovrebbe avallare in alcun modo la prassi sociale del marchio d’infamia da imprimere a fuoco sul condannato perché resti imperitura memoria del suo crimine. Forse si preferirebbe una pena che non si estingua mai e che per Scattone vi fosse la damnatio memoriae? Accade spesso che, da queste stesse pagine, assumiamo posizioni molto dure verso chi delinque o mette a rischio la sicurezza della comunità e l’ordine sociale.
Non abbiamo mai taciuto la nostra predilezione per le punizioni esemplari. Più di una volta abbiamo invocato la mano forte dello Stato contro i suoi nemici, interni ed esterni. Tuttavia, mai confonderemo giustizia e vendetta. Lo Stato deve farsi carico di gestire la violenza per evitare che siano i singoli cittadini a farlo. Ma se un individuo ha pagato il suo debito alla legge, non può l’esecrazione dei benpensanti costituire la quota inestinguibile della condanna comminata dal giudice naturale. In uno Stato di diritto la riabilitazione del condannato è parte essenziale della meccanica che impedisce a una comunità di precipitare nella barbarie. Una società libera e spiritualmente matura dovrebbe molto di più preoccuparsi della possibilità che un innocente sia stato ingiustamente perseguitato e meno di un colpevole che, avendo scontato la sua pena, venga riabilitato.
Accanirsi contro il tentativo di Scattone di tornare alla normalità non riporterà comunque in vita Marta Russo; potrà solo spingere un altro essere umano a disdegnare un’esistenza insopportabile. Ingiustizia chiama ingiustizia.