Fisiologia e Psicologia nelle aggressioni violente

 

 

1. Premessa

Per meglio comprendere quali
siano le modificazioni fisiologiche ed emotive che intervengono in soggetti
coinvolti in un aggressione violenta, è indispensabile affrontare questo
particolare  evento, scomponendolo stesso
in tre diverse fasi.

 

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Le fasi proposte pur essendo
inscindibili tra loro, analizzate singolarmenteoffrono una chiara visione di
quali siano i differenti passaggi che compongono una singola aggressione,
consentendo così di  una più chiara
osservazione del fatto, in quanto tale e una più funzionale analisi di
eventuali strategie risolutive, necessarie sia al superamento fisico dello
scontro/confronto che all'elaborazione emotivo-psicologica; offrendo così
maggiori possibilità di limitare l’insorgere, nella fase post-evento, di sintomatologie
traumatiche e debilitanti.

La suddivisione imposta al
fenomeno “aggressione”, è compiuta sul naturale corso delle attivazioni
emotive, legate a sentimenti di paura ed ansia che investono il soggetto
“preda”, prima, durante e dopo un attacco a lui rivolto e condotto da un altro
essere umano.

Sulla base di queste
considerazioni, si può quindi affermare che l’evento violento inizia
nell’istante in cui il soggetto coinvolto (vittima) percepisce il pericolo e si
prepara attraverso un processo definito:“trasalimento”allo scontro e si
conclude nell’istante in cui il ricordo di quanto vissuto non produca più alcuna
emozione nella sua rievocazione.

Il tempo che intercorre tra
l’inizio dellaprima fase e la fine dell’ultimanon può essere quantificabile o
generalizzato, in quanto totalmente dipendente dalle caratteristiche personali
del singolo; maggiori sono le conoscenze riguardo a se stessi e alle capacità
di comprensione e valutazione rispetto agli eventi, minori saranno le
possibilità di sviluppare sindromi debilitanti e limitative, sia per un
recupero emotivo che di una propria identità sociale.

Un’aggressione, di qualunque
natura essa sia, non può quindi essere ritenuta come un evento che trova la
propria realizzazione nella sola concretizzazione dell’azione, nell’istante in
cui questa accade.

Comprendere il fenomeno della
violenza tra esseri umani, richiede quindi uno sforzo diverso da quello fin qui
offerto, specie nella ricerca di soluzioni e metodologie protettive; l’errata
valutazione e l’esasperata semplificazione del fenomeno in oggetto, alla quale
si è troppo spesso ricorsi, oltre a non produrre i risultati auspicati, rischia
di aumentare le possibilità di sviluppare nelle vittima di azioni violente e di
supremazia psicologica traumi difficilmente superabili.

 

2. Azione violenta condotta verso un essere umano

L’azione violenta, come
conseguenza di un pensiero cosciente e volontario,non può quindi essere
ritenuta un evento “monofasico”, identificato cioè nel solo scontro tra i
soggetti coinvolti; essa deve essere, sempre,considerata e valutata come un
atto “trifasico”.

Seguendo la prospettiva della
vittima, le fasi che compongo la violenza sono così definite:

fase 1.FASE PREDITTIVA

fase 2.FASE ATTUATIVA

fase 3.FASE ELABORATIVA

Questa suddivisione oltre a
facilitare la comprensione degli eventi, migliora le capacità difensive di
chiunque venga coinvolto in un’aggressione, poiché facilita la possibilità di
superare i limiti imposti dai condizionamenti sia sociali, emotiviche
comportamentali; in particolare, per  quelle
categorie, considerate maggiormente a rischio, come le donne.

3. Analisi delle fasi

3.1. Fase predittiva

Sintetizzando all’estremo lo
schema della nostro cervello, possiamo stabilire che lo stesso si divida in  due macro aree che si interfacciano tra loro,
una razionale e cosciente ed una irrazionale e involontaria.

In una condizione omeostasi
(equilibrio), queste due aree del cervello, comunicano con i medesimi organi in
modo antagonista, ma in EMERGENZA, è
la parte irrazionale o istintivaad assumere il totale controllo del corpo e
della mente, bloccando ogni attività non direttamente correlata al superamento
dell’evento (sopravvivenza) e iniziandola produzione di ormoni, così detti
dello stress, necessari alla fronteggiamento di quanto temuto.

Nell’istante in cui
inconsapevolmente percepiamo il pericolo, prima ancora di averlocoscientemente
realizzato, il nostro corpo si prepara al confronto, sia esso di lotta (fight)
o di fuga (flight); l’amigdala (elemento principale nelle reazioni
involontarie) autonomamenteimpone  sensibili modificazioni biologiche, necessarie
a migliorare le perfomance fisiche e velocizzare le sinapsi, tra le quali:aumentare
la frequenza la cardiaca (FC) e la pressione sistolica (PS) e la produzione di
adrenalina, noradrenalina e cortisolo.

Questa fase è stata definita
PREDITTIVA proprio perché sia affida all’involontaria  capacità del soggetto “preda” di individuare precocemente
azioni e situazioni che possano essere considerate prodromi di eventi dannosi;
la capacità di valutazione rispetto ad eventi e comportamenti, è fondamentale
per preparare, in tempi utili, il corpo e la mente per la prova che dovrà
affrontare da lì a poco o meglio, agire affinchéla minaccia non si realizzi.

Per fare ciò, è fondamentale
comprendere quali siano i bias in grado di deviare o distorcere le valutazioni
sull’ambiente nel quale si è inseriti nel presente, poiché ogni realtà muta a
seconda della prospettiva dalla quale la si percepisce e la si elabora.

Le ASPETTATIVE inducono a seguire un pensiero predefinito dissolvendo
la capacità di compiere reali valutazioni cognitive, in altre parole, si può
affermare che di  fronte a un pensiero
ben radicato, questo vince sulle azioni, traendo spesso in inganno.

Le esperienze apprese o
indirette, inducono a trarre conclusioni prematuramente sottostimandoi dettagli
dell’azione vissuta e limitando la possibilità di prepararsi efficacemente allo
scontro.

3.2. Limiti ad una gestione efficace della fase predittiva

3.2.1. La fobia umana universale

Il concetto di FOBIA UMANA UNIVERSALE è stato
introdotto per la prima volta nel 2004 con la pubblicazione del testo ON COMBAT, scritto dallo psicologo
militare DAVE GROSSMAN , il quale
afferma che, la quasi totalità dell’umanità proviverso la possibilità di essere
coinvolti in uno scontro fisico contro un altro essere umano, una paura
incontrollata, tanto e taleda arrivare a modificare sensibilmente abitudini e
percezioni esterne.

GROSSMAN asserisce che questa PAURA
sia dettata dal fatto che un evento prodotto dalla mano umana sia considerabile
maggiormente traumatico, rispetto ad un fatto di eguale gravità prodotto da
eventi naturali, perché considerato un atto PERSONALE, privo cioè della componente di casualità tipica degli
eventi non prodotti dalla mano umana.

L’ansia che si prova verso la
possibilità di essere coinvolti in un evento che preveda uno scontro fisico, rischia
di innalzare il livello di “guardia” ed attivare così quelle modificazioni
fisiologiche legate al superamento di un pericolo, in situazioni che non siano oggettivamente
a rischio, come il confronto con persone sconosciute in ambienti non
famigliari; da statistiche raccolte, nonostante sia molto alta la percentuale
oscura del fenomeno violenze (circa il 90%), emerge chiaro che la possibilità
di essere coinvolti in aggressioni condotte da persone totalmente sconosciute è
relativamente bassa.

Molti studiosi concordano nel
ritenereche il numero oscuro delle violenze coinvolga maggiormente i fatti
subiti in contesti famigliari ed amicali, offrendo così verso le violenze  realizzate in contesti di assoluta estraneità
un quadro al quanto preciso.

La conseguenza più diretta di
un’errata valutazione degli eventi è quella di sottostimare la possibilità che
qualcosa di brutto possa realizzarsi in contesti in cui vi sia una condizione di
confidenza o famigliarità verso il possibile l’aggressore, il quale essendo
persona conosciuta non produce a livello inconscio una fonte di pericolo,
perché non incarna il ruolo del uomo nero, che nascosto nell’ombra è a caccia
della propria vittima.

Nello studio e nell’analisi delle
violenze a danno delle donne, non si deve tralasciare che un soggetto conosciuto
poche ore prima della violenza, non può essere tecnicamente  consideratouno sconosciuto, in quanto
l’interazione avuta fino ai momenti precedenti l’aggressione, ha
inevitabilmente condotto la vittima a concedere maggiori spazi di “manovra” al
proprio aggressore, ad esempio, riducendo la dimensione dell’area personale di
sicurezza (uovo prossemico), così come accade con persone conosciute da tempo.

 

3.2.2.Condizione mentale (riduzione del tempo di attivazione)

Abbiamo osservato come
l’attivazione al pericolo (trasalimento) sia inconsapevolmente attivata da
esperienze pregresse, conoscenze indirette ed aspettative e mai  da condizioni oggettive.

Spesso ci si trova a vivere
momenti di intensa paura semplicemente perché le circostanze ci stimolano, ma
senza aver ricevuto nessun riscontro oggettivo relativo alla possibilità che si
stiano realizzando situazioni critiche o di pericolo, ed in altre occasioni
invece essere  oggettivamente esposti a
rischi,senza provare alcun sentimento in tal senso.

Il mutamento dello status di
allerta non è mai conseguente alla realtà in quanto tale, ma a come questa
viene interpretata e vissuta dai singoli.

La convinzione che le aggressioni
avvengano sempre in luoghi buoi ed isolati può indurre ad un’attivazione
emotiva anche intensa, senza che in quel luogo vi sia alcuno, semplicemente perché
 inconsapevolmente ed ingiustificatamente
si ritiene che quella sia una situazione a rischio.

Filtrare le informazioni che
giungono  a noi dai media, ad esempio,
può essere di aiuto per migliorare la capacità di valutazione dell’ambiente nel
quale si è inseriti ed ottimizzare così le risorse biologiche a disposizione
del corpo e della mente per fronteggiare una situazione a rischio ed impedire
che si possano vivere, da impreparati,situazioni che richiedono un rapido
intervento in difesa della propria incolumità.

Gli americani hanno classificato
il livello di attenzione rispetto all’ ambiente circostante utilizzando dei colori,
definendo area Bianca la condizione di assoluta distrazione e rilassamento e area
rossa quella di maggiore attenzione e concentrazione, le due aree sono separata
da un’area verde ed una gialla; lo schema è del tutto simile allo schema di
gravità utilizzato nei nostri PRONTO SOCCORSO; la stato ottimale di attenzione
durante la giornata, dovrebbe quindi oscillare tra le condizioni VERDE e
GIALLA, mai dovrebbe essere BIANCA.

Mantenere un adeguato livello di
attenzione è condizione essenziale per imparare ad osservare e valutare meglio
gli stimoli che il presente offre, senza lasciare che le aspettative travisino
gli eventi.

3.2.3. Lo schema di casualità

La tendenza generalizzata è
quella di ritenere che esista una casualità diretta tra presente e passato e
che questa seguauno schema, all’interno del quale, gli eventi vengono posti uno
in fila all’altro, seguendo una linea temporale retta,  cose fossero l’uno dipendente dal precedente.

La realtà, risulta essere ben
diversa rispetto questo semplicistico schema di casualità, in quanto il
presente deve essere considerato uno spazio virtuale, ove si concentrano tutti
gli eventi precedentemente realizzati, posti in modo indefinito nel continuum
spazio temporale.

Ogni elemento (evento)
contribuisce a definire il tutto come un insieme e non come singolo elemento.

Riportando questo concetto, nel contesto
della violenza contro le donne, si può affermare che  ogni fatto avvenuto in un momento X del
passato può successivamente contribuire alla  realizzazione della violenza.

Non sempre la causa scatenante
dell’aggressione è da ricercare negli istanti che hanno preceduto il fatto;
atteggiamenti compiuti in tempi non sospetti possono risultare dannosi per la
sicurezza del singolo, anche se apparentemente non correlabili a quanto subito.

Molti studi di vittimologia hanno
dimostrato che vi è, quasi sempre, una relazione diretta tra vittima ed
aggressore, ed uno studio compiuto negli U.S.A. su criminali condannati per
aggressioni violente, ha dimostrato che ognuno di loro aveva aggredito la
propria vittima perché riteneva che la stessa fosse una preda, per lui
facile. 

3.3. fase attuativa

In questa fase il pericolo non è
più il risultato di una proiezione di uno stato di paura, ma una realtà
concreta e contemporanea.

Il corpo e la mente precedentemente
attivati, sono pronti a porre in atto tutte le azioni necessarie a
salvaguardare la vita.

Parte di queste azioni,
definibili reazioni, sono involontarie, come, ad esempio, la vaso costrizione,
processo  molto utile a limitare
emorragie in caso di ferite ed una parte volontaria, come, ad esempio l’uso di
tecniche difensive, frutto di passate esperienze addestrative o semplicemente
di una forte volontà di vita.

Ogni qual volta sia
indispensabile fornire rapidamente risposte rispetto ad un evento il nostro
cervello applica due diverse strategie:

1.Strategia conscia: viene compiuta una scelta sulla base di un
pensiero razionale fondato sulla conoscenza. (percorso logico fortemente
dispendioso)

2.Strategia inconscia: si manifesta in modo involontario attraverso
canali fisici e fisiologici. La mente elabora una strategia in forma autonoma,
senza il confronto con il pensiero razionale.

Questa azione è compiuta da ciò
che può essere definito l’inconscio adattivo.

L’incapacità di controllare,
prevenire e compensare le modificazioni fisiologiche prodotte dalle scelte
compiute dall’inconscio adattivo può inficiare ogni volontà di difesa.

3.3.1. Limiti ad una gestione efficace della fase attuativa

3.3.2. Incontrollata alterazione fisiologica

Gli studi eseguiti  in tal senso hanno dimostrato che vi una
soglia fisica limite, oltre la quale il corpo perde la propria capacità di
movimento e risposta agli eventi e che rende vano ogni tentativo di protezione;
 questa soglia è stata identificata nella
Frequenza Cardiaca,rispetto alla quale il limite massimo accettabile è stato
attestato intorno ai 150 bpm.

Superato questo limite il corpo
non è più in grado, a causa dell’esasperato sconvolgimento fisico,di compiere
azioni complesse come ad esempio usare in modo funzionale la voce; le
articolazioni minori; di mantenere un adeguata visione d’insieme, senza cadere
in ciò che viene definito effetto tunnel (tunnel effect) o visione a tunnel
(tunnel vision), di udire rumori, eliminando così la possibilità di comprendere
quanto stia accadendo; si arriva a perdere il controllo degli sfinteri con
conseguente rilascio di feci ed urina, ed in fine l’eccessiva carenza di
ossigeno porta a stati di svenimento incontrollato e di ipossia, ma non solo,
il permanere in questa condizione di insostenibile tensione e l’eccessivo
sovraccarico di stimoli , produce un totale black out del sistema nervoso del
parasimpatico.

Indipendentemente, quindi, dalla
qualità della performance difensiva attuata nello scontro, appare evidente
quanto sia importante mantenere le modificazioni fisiologiche involontarie
all’interno di range tollerabili, anche in quelle azioni di supremazia
psicologica, che non prevedono cioè il contatto fisico, ma che si concretizzano
con minacce ed azioni intimidatorie.

Secondo il principio del DSMV IV RD (il testo che stabilisce quali
siano le malattie della mente)  per sviluppare
la sindrome del disturbo traumatico post evento (DAS e DPTS) è sufficiente che
durante lo stesso il soggetto coinvolto vivala sensazione di essere esposto ad un grave pericolo di vita o di gravi
lesioni fisiche
oppure una paura
intensa, sentimenti di impotenza, o di orrore

Una elevata ed incontrollata
modificazione biologica, può indubbiamente portare ad una simile sensazione
anche in aggressioni finalizzate ad intimidire con il solo uso della minaccia;
di poco conto, sotto l’aspetto emotivo, il fatto che la stessa sia condotta senza
contatto, a mano armata o a mano nuda.

Le emozioni vissute, durante una
minaccia, sono perfettamente sovrapponibili con quelle che attraversano l'animo
e il corpo di un soggetto percosso.

3.3.3. incapacità di gestione

Un’elevata attivazione
fisiologica è spesso la diretta conseguenza di una consapevolezza di incapacità
gestionale rispetto al vissuto; la consapevolezza di non avere sufficienti
risorse per ilfronteggiamento rispetto ad un evento fortemente stressante come
un aggressione produce, in coloro che percepiscono sé stessi come potenziali
vittime, una sorta di circolo vizioso meglio conosciuto come circuito
dell'ansia ovvero “la paura di aver
paura”.

Il solo pensiero di poter vivere
emozioni così invasive, senza possedere le giuste risorse per affrontarle,
sviluppa inconsapevolmente uno stato d'ansia generalizzato che se non gestito
può portare a disturbi e a stati di colpevolizzazioneprodromi di crisi
depressive anche gravi, inoltre la non conoscenza di ciò che fisiologicamente
avviene nell'emergenza può indurre la preda a desistere nella difesa e nelle
azioni di contrasto alla violenza subita, poiché la sensazione prodotta è
paragonabile a quella di morire.

3.3.4. La riprova sociale

Il dott. Robert Cialdini, nel suo testo sulle armi di persuasione,
sintetizza questo  principio con queste
parole: "quanto maggiore è il
numero di persone che trova giusta una qualunque idea, tanto più giusta è
quell'idea”.

In altri termini, se ad un
soggetto è richiesta una rapida valutazione degli eventi ed un’immediata risposta
agli stessi, la sua mente sceglierà la strada più breve per compiere la scelta
più idonea, la strategia involontariamente posta in essere, dalla mente, è
quella di imitare il comportamento dei presenti; il risultato prodotto
dall’attivazione di questo principio è così potente da stabilire che la riprova sociale sia un arma di
persuasione tra le più potenti.

La triste storia di Catherine
Genovese violentemente assassinata a New York, una notte di marzo del 1964,
insegna quando questo principio sia potente e che quali gravi conseguenza possa
avere.

Per comprendere la triste storia
di Catherine, è sufficiente sapere che al fatto furono presenti ben 38
testimoni, e che, nonostante le grida nessuno di loro fece nulla per aiutare la
ragazza, nemmeno con una telefonata alla polizia.

Durante le attività
investigative, quando fu chiesto loro il perché di questa totale apatia,
nessuno fu in grado di dare, agli investigatori, una risposta plausibile.

Solo dopo uno studio condotto da
due psicologici Latanè e Darley si giunse alla conclusione che quella apatia fu
la conseguenza di un numero elevato di testimoni, i quali attraverso
un’osservazione reciproca, si trovarono a vivere in una condizione di “ignoranza collettiva”, una status
mentale, conseguente alla fenomeno della “riprova
sociale
” in cui tutti compiono o non compiono la medesima azione senza in
realtà conoscerne le ragioni e scarico all’altro la responsabilità delle loro
azioni o non azioni.

L’idea quindi di essere al sicuro
fra la gente può essere sbagliata, una vittima di violenza potrebbe rischiare
di non ricevere immediatamente l’aiuto di cui ha bisogno, proprio perché sono
presenti molti possibili testimoni, i quali deresponsabilizzando il loro ruolo
si affidano agli altri, che per la medesima ragione lasciano che gli eventi
scorrano.

Abbattere la barriera di apatia
prodotta dallo stato ignoranza collettiva, non è difficile, in quanto è
sufficiente richiamarsi alla responsabilità
di un singolo
, svegliandolo dallo stato “ipnotico” nel quale si trova, indicandolo
e esponendo chiaramente di che genere di azione si vuole che compia.

La riprova sociale, oltre a
rendere pericoloso un contesto, altrimenti ritenuto sicuro, può condizionare
altre situazioni che coinvolgono donne aggredite, è il caso ad esempio della
scelta di omertà rispetto ad una violenza consumata all’interno della mura
domestiche o in contesti culturalmente arretrati  ove la donna è ancora ritenuta un essere inferiore
e la violenza un fatto da tenere segreto a qualunque costo.

Un’ultima situazione che vede il
principio della riprova sociale come nemico della sicurezza delle donne si
realizza con le azioni compiute in branco, all’interno del quale potrebbero
essere coinvolti soggettinon realmente convinti di ciò che stanno facendo, ma
semplicemente trascinati dalle azioni compiute dagli altri, anche in questo
caso richiamare alla responsabile un singolo può aiutare a trovare tra gli
aggressori un complice alla propria salvezza.

 

3.3.5. fase elaborativa

Il confronto/scontro appena
terminato, a prescindere dalle conseguenze fisiche che ha prodotto, ha
frantumato l'equilibrio emotivo del soggetto coinvolto.

Le modificazioni fisiologiche prodotte
involontariamente, faticano a rientrare in parametri accettabili o normali, nonostante
la vittima sia sfuggita dalle mani del suo aggressore.

Il ricordo degli eventi si fonde
con le emozioni percepite e quanto vissuto permane nell'animo della vittima, sviluppando,
quella che può essere considerata la vera lotta per la vita, ovvero il
confronto con se stessi e con le persone di riferimento.

Per tutto il tempo in cui le
emozioni si confondono con i ricordi di quanto accaduto, una forza oscura
consuma l’anima della vittima, assorbendone ogni energia e lasciandola in balia
di correnti emotive incontrollate.

Aver affrontato ogni singola fase
dell’aggressione in modo funzionale ed ogni singola mutazione fisiologica con
la consapevolezza che si trattava di condizioni necessarie e naturali, aiuta a
dissipare ogni ansia post traumatica.

3.3.6. Limiti ad una gestione efficace della fase elaborativa

Le modalità con le quali sono
state affrontate le frasi precedenti dell’aggressione, incidono grandemente
sullo sviluppo di sintomatologie debilitanti, i limiti ad una corretta
elaborazione e superamento dell’evento traumatico molto dipendono dalla
consapevolezza della vittima di aver fatto quanto in suo possesso per
sopravvivere e di aver vissuto uno sconvolgimento fisiologico necessario e per la
situazione, “NORMALE”.

Questa consapevolezza è possibile
solo attraverso la conoscenza e la preparazione.

3.3.7.  emozioni che intercorrono
a minare il superamento del trauma

3.3.7.1.La vergogna

La vergogna provata dopo
l’aggressione, nasce dalla convinzione che vi sia qualcosa di sbagliato nella
vittima che l’abbia condotta a subire le violenze, una sorta di punizione
dovuta al possesso di un errore genetico, non dipendente da se stessi.

La vergogna è legata al giudizio
sociale intransigente e perbenista che reputa tutto ciò che non comprende come
sbagliato e demoniaco.

3.3.7.2. La vittimizzazione o etichettamento

Nonostante come studio
scientifico la vittimizzazione abbia fornito conoscenze indispensabili alle
attività di aiuto alla vittime di violenza e di ogni altra azione lesiva, l’uso
strumentale che ne è stato fatto ha idealmente creato una sottocultura
vittimistica, per la quale, chi è stato vittima, vestirà questo ruolo per tutta
la sua esistenza divenendo così, rispetto agli altri, un diverso.

Per questa ragione l’uso del
termine vittima, deve essere utilizzato con attenzione, evitando la  stigmatizzazione del soggetto.

Abituare chi ha subito una
violenza a definirsi come un “ex vittima” può essere utile a migliorare la
personale visione del se, rispetto alla società.

3.3.7.3. Il senso di colpa costruttivo

Il senso di colpa costruttivo è
spesso conseguente alla sensazione/convinzione di incapacità risolutiva rispetto
agli eventi, significa in altre parole assumersi la responsabilità di quanto
subito, poiché diretta conseguenza di un’azione volontaria condotta da colui
che, contestualmente ne percepisce le conseguenze.

Nei casi di violenza reiterata
questo sentimento può essere fonte di una sofferta accettazione di quanto stia
accadendo, come inevitabile conseguenza di una personale mancanza.

3.3.7.4. Il senso di colpa generalizzato

Il senso di colpa generalizzato
si differisce dal senso di colpa costruttivo, poiché non è conseguente ad una
presunta azione o non azione ricollegabile a quanto vissuto, ma si tratta di un
malessere generale che nasce della convinzione di essere inadeguati e “fuori
luogo” rispetto agli altri.

La sua origine non è da ricercare
nella violenza subita ma dalla percezione che la vittima ha di se rispetto alla
società, essere oggetto di pregiudizi, spesso mascherati da “semplici ed
innocui” modi di dire come le generiche colpevolizzazioni sociali o le
attribuzioni di incapacità rispetto al genere, 
indicono i destinatari delle attenzioni ad immedesimarsi con i valori e
i giudizi loro attribuiti, anche se si tratta di affermazioni prive di alcun
fondamento concreto.

3.3.7.5. I retaggi culturali

Il linguaggio colloquiale  è ricco di luoghi comuni e modi di dire che
deresponsabilizzano coloro che commettono atti violenti contro una donna,
insinuando, ad esempio che la responsabilità dell’azione è da ricercare
nell’abbigliamento o nell’aspetto estetico della vittima, nonostante spesso
queste siano “infelici battute da bar” le stesse sono inconsciamente
immagazzinate nell’area involontaria del cervello della donna e a seguito di
una violenza quelle informazioni  saranno
utilizzate come termini di paragone per ricostruire il giudizio del se.

 

 

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