Enzo Ciconte: "Mafia, c’è un’omertà che coinvolge tutti"



di Daniele Valisena

REGGIO

Il primo passo per poter affrontare un problema, come insegna la psicologia, è ammetterne l'esistenza. Un atto difficile, che oltre alla sua importanza sul piano formale, rischia, una volta introdotto, di andare a scompaginare tutta una serie di consuetudini e di rappresentazioni di un microcosmo locale che avverte come estraneo ogni elemento destabilizzante, in particolare se questo si chiama "mafia". La questione però non può venire elusa. «La mafia a Reggio c'è - afferma il professor Enzo Ciconte, uno dei massimi esperti di mafia in Italia, nonché autore di diversi lavori sui fenomeni mafiosi in Emilia e in particolare a Reggio - sia come organizzazione che come presenza di soggetti che svolgono attività di stampo mafioso. Uno degli elementi di penetrazione è stato l'arrivo nel 1982 di un 'ndranghetista calabrese, Antonio Dragone, che venne qui in soggiorno obbligato e che diede il via ad una serie di attività poi proseguite dai parenti dopo la sua incarcerazione. Il cuore dell’organizzazione è l'edilizia, il luogo in cui si sono potuti sviluppare gli interessi dei mafiosi in maniera più semplice: quello dell'edilizia è un problema nazionale, che riguarda non solo l'Emilia e che permette ai mafiosi di entrare in contatto con diversi soggetti, dai politici al mondo del lavoro, oltre a favorire l'ingresso nei gruppi dei "picciotti", che saranno fedeli al capo per tutta la vita. Ci tengo a precisare che non sto parlando degli immigrati calabresi, i quali hanno subito le prepotenze dei mafiosi. E' un meccanismo di imposizione criminale».

Non si tratta dunque di un atteggiamento di derivazione "culturale" legato all'origine di alcuni gruppi sociali?

«No, la cultura c'entra poco, serve al massimo per riconoscere l'origine di queste pratiche, è un meccanismo che ha a che fare con i legami personali. C'è poi una novità in questi ultimi anni: ci sono imprenditori reggiani che sono stati sottoposti al pizzo e non hanno parlato, ma soprattutto, alcuni imprenditori reggiani hanno cominciato a fare affari con i mafiosi».

Perché è così difficile ammettere l'esistenza di questa situazione a Reggio?

«La mia opinione è che ci sia una parte della "società bene" di Reggio, ma in generale dell'Emilia, la quale crede che ammettere questa situazione rappresenti uno sfregio all'immagine della regione. E' un errore, perché l'Emilia Romagna è nelle condizioni migliori per combattere il fenomeno; tardando si rischia di arrivare alle condizioni della Lombardia, dove sono emerse situazioni in cui tra gli implicati c'erano anche dei rappresentanti politici. Se il cittadino è consapevole della situazione può capire e reagire, altrimenti si rischia di favorire l'accoglienza di queste pratiche»..

La crisi come ha influenzato il fenomeno malavitoso?

«Gli 'ndranghetisti hanno una liquidità molto forte, ed è possibile, ma ce ne accorgeremo più avanti, che si possano verificare o che si siano verificate delle situazioni di prestito e finanziamenti alle imprese in difficoltà».

Una cooperativa è più o meno esposta a questi fenomeni?

«Per sua natura una cooperativa dovrebbe avere un atteggiamento negativo verso la presenza di atti criminali, dovrebbe avere un'etica diversa da un'impresa individuale. Negli ultimi quindici anni però credo si sia introdotto un elemento devastante, quello del guadagno a tutti i costi, che ha stravolto l'atteggiamento e le finalità di molte società».

E' possibile per Comuni e società appaltatrici distinguere tra "società pulite" e società con infiltrazioni mafiose?

«Esistono degli indicatori, che è possibile riconoscere. Il vero problema non sono poi tanto gli appalti, ma i subappalti. Sul cantiere, nell'atteggiamento dei capi, nelle condizioni di lavoro, è comunque possibile cogliere i segnali per individuare situazioni con probabilità di presenza mafiosa».

A Reggio è presente un'importante comunità originaria di Cutro. E' giusto, com'è stato fatto recentemente da parte di un esponente politico reggiano, parlare di omertà concentrata in quella comunità?

«C'è un'omertà che coinvolge tutti, anche i reggiani. Credo che l'atteggiamento più corretto sia quello di rivolgersi a tutti, perché tutti hanno la capacità di reagire e ben comportarsi senza tener conto del luogo di nascita. Chi ha combattuto la mafia sono stati i calabresi in questi anni, i giudici, gli avvocati, io stesso sono calabrese e combatto i miei compaesani. Bisogna chiamare tutti a raccolta».

Qual è l'atteggiamento degli enti pubblici?

«Mi occupo di Reggio dal 1997, su incarico della Regione. Io credo che ci sia la consapevolezza di questa situazione da parte del Comune e della Regione. Lo studio della realtà concreta è quanto di più importante esista: se si colpevolizza una comunità ci si mette contro questa intera comunità. Bisogna capire che ci sono alcune persone che formano la 'ndrangheta, ma non bisogna banalizzare la questione pensando ci siano dei banditi con i fucili e le pistole. Il fenomeno si combatte comprendendolo: la penetrazione nell'economia, nel commercio, nel settore del trasporto, del divertimento, i videopoker, i locali notturni, gli ipermercati, ecco, analizzando queste situazioni si capisce che non è “una cosa” che hanno in mano quattro cutresi».

In che rapporto è la lotta alla mafia con l'integrazione delle diverse comunità a Reggio?

«Uno degli uomini di Dragone una volta gli ha detto, rispondendo alla sua richiesta di andare a riscuotere il pizzo da un imprenditore: "Con questo non funziona perché ormai la pensa alla reggiana…", e infatti questo lo ha poi denunciato ed è stato uno degli elementi di testimonianza al processo. Ciò dimostra che se si ha una capacità di accoglienza, quando non respingono le persone, queste si integrano, al punto che non si distingue più se un cittadino è originario di Cutro o di Reggio. Questo riguarda anche gli stranieri. Racconto sempre una mia esperienza: quando ero a Torino all'università vidi come tutti i meridionali furono collocati nei casermoni allora in costruzione in periferia, isolandoli e favorendo la loro convivenza con gli elementi della malavita. Evitare di isolare le comunità rappresenta la scelta migliore per la sicurezza cittadina».



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