Effetto Balotelli, la psicologia dei pregiudizi

“Io non sono razzista�. Lo pensiamo quasi tutti di noi stessi. Alzi la mano chi non si è indignato davanti alla reporter ungherese che faceva lo sgambetto al padre siriano in fuga dalla guerra. Chi non si è commosso per la morte di Nelson Mandela. Chi non ha riconosciuto la portata storica dell’elezione di Barack Obama. Ci preoccupiamo quando le destre xenofobe ottengono buoni risultati elettorali. E magari compriamo dal venditore extracomunitario sotto casa anche oggetti di cui non abbiamo bisogno. Ma la diffidenza nei confronti delle persone che appaiono diverse può essere subdola, un meccanismo automatico che scatta eludendo la buona coscienza, anche se razionalmente siamo convinti che l’umanità sia una sola, fatta di donne e uomini con uguali diritti. I pregiudizi sono un oggetto di studio scientifico da quasi mezzo secolo e la psicologia suggerisce che si annidano ovunque. Ce lo ricorda periodicamente la cronaca, ogni volta che un poliziotto americano finisce nei guai per il grilletto troppo facile nei confronti di un ragazzo di colore. Ce lo conferma l’ultimo numero di Nature, con un articolo corredato dalla foto di Mario Balotelli mentre viene espulso da un arbitro.

Gli studiosi del comportamento Raphael Silberzahn ed Eric Uhlmann hanno reclutato 29 gruppi di ricerca per testare in modo indipendente la stessa ipotesi: i calciatori neri hanno più probabilità di essere puniti dei bianchi? Tutti i ricercatori hanno avuto accesso allo stesso set di dati, con le sanzioni comminate in quattro campionati e un punteggio per classificare il colore della pelle dei giocatori. Ognuno ha scelto l’approccio statistico che preferiva e questo ha inevitabilmente portato a risultati diversi tra loro. Ma 20 gruppi su 29 hanno concluso che esiste una correlazione statisticamente significativa tra pigmentazione epidermica e cartellini rossi. Lo studio aveva lo scopo di dimostrare l’utilità della ricerca in crowdsourcing, con più gruppi che si cimentano nello stesso esperimento confrontando i risultati. Ma è servito anche a ribadire la pervasività dei pregiudizi nei contesti sociali più disparati. Probabilmente lo stesso metodo confermerebbe altre tipologie di discriminazione inconsapevole descritte nella letteratura scientifica. Ad esempio la maggior severità mostrata mediamente dai giudici nei confronti dei delinquenti di colore. O l’ipotesi che i datori di lavoro si lascino influenzare dall’etnia dei candidati. C’è chi sostiene, ad esempio, che basti avere un nome tipicamente afro per essere penalizzati durante la valutazione di un curriculum. Una Emily Walsh o un Greg Baker avrebbero più probabilità di essere assunti di una Lakisha Washington o un Jamal Jones. Non illudiamoci che il problema riguardi solo gli Usa. Il fatto che in Italia l’immigrazione sia un fenomeno recente, anzi, potrebbe rafforzare gli stereotipi. Se un nero ordina una bottiglia di champagne in un bar di Parigi non si stupisce nessuno, a Milano sì, ha raccontato a Viviana Mazza il modello di colore Steeve Clairicia. “Why always me?�, perché sempre io? Qualche anno fa SuperMario se lo è scritto sulla maglietta per replicare ai critici. Da oggi quella domanda può assumere un significato più ampio. Perché è tanto facile prendersela con chi si presenta in modo diverso? Immaginate di essere in un vicolo buio e di scorgere una figura. Se siete bianchi e lo sconosciuto è nero, è probabile che in una frazione di secondo avvertiate una sensazione di pericolo. I test di associazione implicita rivelano che la maggioranza delle persone ha riflessi più pronti quando si tratta di collegare il proprio gruppo di appartenenza a concetti positivi e gli outsider a concetti negativi (chi vuole può mettersi alla prova qui). All’Università del Colorado hanno sviluppato un videogame in cui si alternano personaggi bianchi e neri, armati e disarmati, e il giocatore deve decidere a chi sparare. Il colore della pelle influenza la tendenza a scambiare un oggetto innocuo come un telefono per una pistola, e quindi la reazione. Altri esperimenti hanno dimostrato che i bambini sono portati a identificare come appartenenti alla propria etnia i volti sorridenti e come stranieri quelli arrabbiati. L’ipotesi avanzata dai biologi evoluzionisti è che la nostra mente ospiti un sistema di allarme ancestrale, tarato in modo tale che sia più facile lanciare un’allerta inutile piuttosto che ignorare un reale pericolo. I falsi allarmi suonano spesso, come nei dispositivi antincendio. Probabilmente la paura dell’uomo nero è una sottocategoria di un fenomeno più grande, la paura degli outsider, perché nel passato remoto i diversi erano coloro che appartenevano a una tribù vicina e raramente avevano una pigmentazione molto differente. Il sesso più coinvolto negli scontri per il controllo delle risorse era quello maschile, perciò non stupisce che le donne straniere suscitino meno diffidenza degli uomini. La cooperazione all’interno di un gruppo favorisce l’esclusione degli estranei, e l’ostilità con gli estranei cementa il gruppo a sua volta. È così che ancora oggi, a seconda del contesto culturale in cui ci troviamo, identifichiamo subito chi è fuori standard per aspetto, religione, stile di vita. Educazione e ragione, conferma la scienza, possono dominare gli impulsi e forse riconoscere il piccolo xenofobo nascosto in ognuno di noi è il primo passo per batterlo. (Pubblicato sul Corriere della sera il 10 ottobre 2015)

 

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