Cultura della società sportiva vs atleti: “Qualcuno chiami lo …

Con un titolo ironico e ad effetto vorrei introdurre il tema di questo articolo, che un po’ si ispira a quello che accade in questa settimana, così dice il detto:”anno nuovo vita nuova”. Ci si impone di fare dei cambiamenti, di dare una svolta, di cambiare rotta. Ma spesso tutto rimane così com’era (e forse non è poi così male). Il cambiamento è sempre delicato, porta preoccupazione e senso di smarrimento, soprattutto quando si tratta di un cambiamento culturale e, nello specifico, noi affronteremo il cambiamento culturale per quanto riguarda le società sportive. Tempo fa ho partecipato ad un corso di aggiornamento all’interno di una società di uno sport molto popolare e il coordinatore generale si è espresso più o meno così:”Qui c’era un approccio, che era quello che è stato utilizzato anche quando ero atleta io, in cui se non facevi quello che ti dicevano gli allenatori allora non potevi che essere uno scansafatiche. Ovviamente quando io ho iniziato ad allenare non ho fatto altro che adottare lo stesso sistema, senza alcun dubbio, poichè è sempre stato così, è il nostro modo e non si cambia. Poi però ad un certo punto è successa una cosa imprevista: i miei tre migliori elementi, proprio nel momento in cui avevamo vinto delle medaglie pesanti, mi hanno detto che se ne sarebbero andati. A questo fatto si sono aggiunte altre problematiche con i rimasti fino a quando non mi sono ritrovato in un tavolo a tre: io, il mio atleta di punta e lo psicologo dello sport. Da quel momento abbiamo dato vita ad un dialogo differente, sia interno fra gli allenatori, sia fra allenatori ed atleti. Abbiamo deciso di dare maggiore credito ai segnali fino ad allora ignorati, di ascoltare anche quelle cose che, secondo la nostra precedente filosofia, erano della ca…volate belle e buone. C’è ancora molto da fare, ma sicuramente siamo sulla strada giusta”.

Sono parole di chi allena e vive di sport, di chi ha vissuto una situazione complicata e che alla fine ha deciso di provare a cambiare “qualcosa”. Ma ciò che ha sperimentato lui, è anche quello che vivono pressochè tutti gli allenatori/dirigenti/accompagnatori/etc. quando si trovano davanti ai loro atleti.

La continuità della propria cultura sportiva (ma perchè no, chiamiamola per quella che è: cultura organizzativa, tipica di ogni struttura e/o azienda) è decisamente importante: una società ha delle radici, ha una storia, ha delle idee che vuole portare avanti ed è indispensabile che questo retaggio non vada perduto, sia vivo e pulsante e deve essere diverso da quello delle altre società sportive, altrimenti tanto vale chiamarsi società 1-2-3-1000… che differenza potrà mai esserci?! Pertanto io sono un sostenitore del “qui si fa così” perchè permette di dare un’identità, non solo alla società, ma anche agli atleti che ne fanno parte che con il tempo interiorizzano e fanno loro tale cultura organizzativa.

Esiste però un problema reale: molto spesso il “qui si fa così” è maschera di un ben diverso “qui si è sempre fatto così”. Cosa vuol dire questo? Significa che la società è ferma, rigida. Personalmente lo definisco “riciclo culturale“, esso sottintende la mancanza di integrazione nel tempo di nuove idee e forme culturali. Certo, uno potrebbe credere che non sia necessario cambiare qualcosa che funziona, ma forse ci stiamo dimenticando che il mondo intorno cambia, che lo si voglia o meno e che ciò che funziona oggi domani potrebbe fallire miseramente se non stiamo attenti alle nuove implicazioni emerse.

Guardate i più piccoli: nascono in un mondo digitale, vivono prettamente in casa e spesso non hanno un gruppo esteso di persone con cui interagire. Questo comporta necessariamente delle modalità nel loro modo di vivere, pensare e comportarsi che possono essere difficili da interpretare per una società che ha deciso di adottare il “qui si è sempre fatto così”. Si creano problemi di dialogo fra le diverse generazioni in generale, figuriamoci fra diverse generazioni di atleti e allenatori!

Le posizioni più rigide si trincereranno sul “allora farò a meno di quell’atleta!”, ma se poi inizi a fare la conta, scopri che tutti gli atleti in un modo o nell’altro sono così, dato che, banalmente, è un’intera generazione che spinge in quella direzione! Qui non si sta parlando di cosa sia giusto o sbagliato, ma semplicemente di quello che è: si osserva un fenomeno in quanto tale.

Cosa fare quindi? Nel caso del nostro amico coordinatore è stato quello del “chiamiamo lo psicologo dello sport!” che non è una cattiva idea (non lo dico per promuovere la professione, perlomeno non soltanto…) perchè di norma egli è un esperto degli aspetti relazionali ed è in grado di fornire modelli e strumenti validi per trovare il giusto livello di conciliazione fra le esigenze della società e quelle degli atleti. Ci possono essere altre soluzioni valide, vedremo nei prossimi articoli cosa sia possibile fare iniziando dal rapporto più immediato:  quello fra allenatore vs atleta.

Buon Anno!

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Dott. Mauro Lucchetta – Psicologo dello Sport
Per domande o dubbi: mauro.lucchetta@psicologiafly.com oppure visitate il sito: www.psicologiafly.com

 

 

 

 

 

 

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