Così la “psicologia positiva” migliora la nostra vita


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di Daniela Mattalia

Il termine, “psicologia positiva», suona bene. Ne vorremmo tutti un po’, di psicologia positiva quotidiana, come bussola personale per non perderci dietro ai nostri scontenti. Non è facile, ma è possibile. Lo è anche grazie al lavoro svolto dalla Società italiana di psicologia positiva, che forte di un centinaio di associati, studia, divulga e insegna l’arte di “pensare positivo”. La felicità è forse una parola forte, o troppo abusata, ma si può davvero cercare di praticarla ogni giorno. Un esperimento esistenziale alla portata di tutti.
A guidarci sarà, dalla prossima settimana, un pool di esperti della Società di psicologia positiva che sul sito di Panorama offriranno consigli, suggerimenti, riflessioni, rispondendo anche alle domande dei lettori. “L’obiettivo” come spiega in questa intervista Stefano Gheno, presidente della Società, “è declinare quello che chiamiamo “benessere dell’anima””.

In che cosa è diversa la psicologia positiva da quella che conosciamo tutti?
La psicologia classica interviene, per così dire, su quello che non va. Nel 2000 due psicologi americani, con un articolo pubblicato sull’American journal of psichology, proposero, per il nuovo millennio, una psicologia che si concentrasse sul buon funzionamento dell’anima. Nel 2004, mettendo in pratica questa filosofia, siamo nati noi, in Italia.
Nel concreto, che cosa fate?
I nostri associati sono in gran parte psicologi, sia accademici sia clinici. Negli ambiti in cui lavorano, psicologia della salute, del lavoro, dell’educazione, cercano di applicare la scienza del funzionamento, di mettere in pratica interventi per migliorare la qualità della vita e il benessere psicologico.
Mi faccia un esempio.
Le faccio il mio, di esempio. Io sono uno psicologo del lavoro, consulente delle aziende. Nell’ambito del lavoro ci si occupa, in generale, di quello che non va, delle mancanze. Da quando ho scoperto questa disciplina, invece, mi concentro molto di più sulle potenzialità dei lavoratori che sui loro limiti. Uso un approccio di potenziamento delle caratteristiche personali, di rafforzamento dei punti di forza.
E le aziende, rispondono bene?
All’inizio erano abbastanza sorprese dal fatto che ci occupiamo di più di ciò che funziona. Oggi, che nel mondo del lavoro c’è grande disagio e sofferenza, le aziende cercano sempre più una mano per risolvere problemi e conflitti. C’è una richiesta crescente di strategie positive. Anche nelle scuole: ci sono colleghi che lavorano insieme agli insegnanti e ai genitori per valorizzare le risorse degli allievi. Perchè il mestiere di insegnare, ma anche quello di imparare, è spesso faticoso e frustrante.
La felicità si può imparare? E da dove si inizia?
Ci sono due grandi fattori che aiutano a vivere meglio. Intanto, lasciare spazio al desiderio. Siamo troppo concentrati sui bisogni, su ciò che ci manca, sui nostri problemi, credo invece che dobbiamo essere più capaci di desiderare.
Ma se il desiderio non si avvera, non diventa una fonte di malcontento?
Attenzione a non confondere il desiderio con il diritto ad avere. Il desiderio di per sé è un motore che innesca energia, è tensione verso un obiettivo, quello che ci permette di andare avanti anche in mezzo alle difficoltà.
E il secondo «ingrediente» per essere felici?
Diventare capaci di guardare alle esperienze positive della vita. O di ricordarle. Un esercizio utile, anche perché viviamo circondati da informazioni negative, da eventi presentati come catastrofici. Invece abbiamo tutti esempi infiniti di cose positive, di successi, di incontri buoni. Addestramoci a partire da queste esperienze.
Lei, da psicologo “positivo”, mette in pratica ciò che insegna, nella sua vita di tutti giorni?
Io dico sempre che uno sceglie di fare un certo lavoro per due motivi, o perché trova una grande corrispondenza con il proprio pensiero, o perché gli manca qualche cosa. Io per entrambi i motivi: non sempre mi riesce di seguire questo approccio positivo alla vita, però ci credo fortemente.

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