Con la morte nello zaino: chi sono gli school shooters?

Gli school shooters sono arrivati su questo mondo già da decenni, e soprattutto negli Usa il fenomeno dello school shooting sta aumentando. Gli sparatori nelle scuole si armano contro insegnanti, dirigenti e soprattutto compagni di scuola, e da qui alla strage il passo è breve. Solo nel 2015, negli Usa vi sono state quasi 50 stragi di questo tipo; particolare risonanza ha avuto la tragedia consumatasi nell’Umpqua Community College di Roseburg (Oregon): un ventiseienne, che viveva nei pressi del college, ha ucciso a colpi di arma da fuoco 10 persone, e poi è rimasto vittima, a sua volta, dello scontro a fuoco con la polizia.

 

Le scuole (insieme agli uffici) sono il luogo in cui negli Usa si verificano più frequentemente episodi di uccisione di massa. Alcune volte, gli autori di reato sono dei minori. Nella cornice del Polo Tuscolano della Polizia di Stato, che ha ospitato il XVII Congresso Nazionale di Psicologia Giuridica, dal titolo I peccati del dio minore. La trama complessa della violenza minorile, organizzato dall'Aipg il 6 e il 7 novembre a Roma, Adriano Zamperini, docente di Psicologia sociale presso l’Università di Padova, ha delineato un profilo dello school shooter, invitando ad «ascoltare chi spara», meditando sul fatto che lo sparo è un «azzeramento della possibilità di presa di parola dell’altro», della vittima.  

 

Chi è, dunque, lo school shooter? «È un emarginato. Spesso soffre a causa di malattie o malformazioni fisiche imbarazzanti. È invisibile ai “radar relazionali”: nessuno lo nota», ha spiegato il prof. Zamperini. E a far “notare”, poi, chi ha premuto il grilletto, sono i mass media, e la visibilità mediatica che deriva dalla strage «può allearsi con particolari bisogni umani nel dare corso a una condotta violenta». Lo school shooter, ha proseguito il professore, «è sfiduciato verso il futuro. Prova passione per particolari figure culturali, come adolescenti che riscattano se stessi attraverso eclatanti atti di violenza, e per le armi. E per il senso di potere che deriva dallo stringere in pugno una pistola o dall’imbracciare un fucile».

 

I minori autori di un reato di questo tipo hanno spesso «biografie violentate da un contesto scolastico che li rende “inadatti”, diversi rispetto alla maschilità egemone in una cultura: la violenza vendicativa è dunque la riaffermazione di una mascolinità calpestata», ha spiegato il prof. Zamperini. E ha parlato di entitatività, ossia la percezione di essere di fronte a un aggregato coeso di persone, le quali hanno creato qualcosa di negativo nella vita dello school shooter.

Come abbiamo detto, il fenomeno dello school shooting è diffuso (e drammaticamente in aumento) negli Usa, ma sta procedendo anche verso l’Europa. Lo scorso aprile, a Barcellona, un ragazzino di appena 13 anni ha ucciso la sua insegnante di spagnolo e ferito alcuni compagni di scuola.

 

«Dobbiamo ascoltare chi spara»: questo l’invito del prof. Zamperini. Vi è una quota sempre maggiore di ragazzi che compiono reati perché soffrono: è questo uno degli aspetti emersi dal XVII Congresso Nazionale di Psicologia Giuridica organizzato dall’Aipg. Il minore può essere vittima o autore di reato, ma quando è autore è, allo stesso tempo, vittima. Molto si può fare, ripensando a servizi, pratiche, approcci, modelli. Ed è importante non commettere l’errore di inciampare nelle generalizzazioni: non si può dare la responsabilità alla “generazione”, o ai “social network”, per esempio. Sul banco degli imputati non possono finire internet o il telefonino. Con le parole del magistrato Ciro Cascone, «dobbiamo parlare di minori devianti, minori che commettono omicidi, e non di omicidi commessi da minori».

Cosa succede (o meglio, cosa gli è – già – successo) quando un minore si sveglia la mattina e a scuola, oltre a libri e quaderni, decide di portare la morte? La risposta è in lui.

 

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