Come funziona la testa del campione?

E’ una domanda piuttosto comune, in grado di incuriosire qualsiasi atleta. Di solito nasce guardando l’espressività (o l’inespressività) dello sportivo di riferimento: a cosa starà pensando? Cosa starà provando? Come si sente? Cos’ha che gli altri non hanno?

Quest’ultima domanda è soprattutto quella che più affascina e inquieta lo sportivo: la testa del campione è diversa? E’ speciale?

Recentemente sono usciti alcuni articoli di psicologia dello sport che hanno parlato del funzionamento del cervello del campione, ma credo che non abbiano dato una risposta alla domanda più importante: il cervello del campione è “esclusivo”? “Unico”? “Predestinato”?

La risposta è senza dubbio no. O meglio, di sicuro è un cervello allenato ad esserlo, ma non è esclusivo, non è speciale da un punto di vista genetico, al massimo lo è diventato con il tempo.

Ogni testa è potenzialmente la testa di un campione: Valentina Vezzali ha affermato più volte di nutrire una paura terribile poco prima di salire in pedana al punto da sentirsi morire quando sta per impugnare il fioretto. Stoner, invece, è sempre contrito e nervosissimo mentre si appresta ad affrontare una gara in moto da 300 km/h. Ibrahimovic sembra sempre molto arrabbiato con il mondo, mentre Vettel in F1 sorride sornione anche quando la giornata non promette buoni risultati…

Approcci diversi e nonostante ciò grandi risultati per tutti. Il segreto è che loro hanno saputo trovare la loro modalità di funzionamento ottimale. Poco importa cosa la determini, quale emozione o quale pensiero li guidino, per loro è così.

Ma quindi non esistono delle caratteristiche comuni? Dei parametri di riferimento? Come anticipato sopra non esiste il cervello geneticamente campione, ma di sicuro ci sono persone che si approcciano mentalmente ad esserlo. Esse hanno le seguenti caratteristiche:

- hanno la percezione di avere capacità sportive in grado di far fronte alle richieste.

- tutto viene visto come sfida (e non come sfiga ), sia gli elementi positivi che quelli negativi (arbitri, meteo, avversari, pubblico, campo di gioco) vengono interpretati come caratteristiche insite nel gioco, vincolanti, ma di certo non così in grado di modificare la propria prestazione sportiva.

- sono proiettate nel futuro, quando possibile pensano già alla prossima manche, alla prossima gara o alla prossima partita. Poco spazio alla ruminazione mentale sugli errori passati.

E’ chiaro che queste caratteristiche possono (e debbono) essere allenate, non sono rigide o prestabilite, si tratta invece di interpretazioni del contesto che dipendono da libere scelte dell’individuo. I 3 punti indicati sopra rappresentano sicuramente un buon punto di partenza per approcciare alle attività di mental training.

Dott. Mauro Lucchetta

Per domande o dubbi: mauro.lucchetta@psicologiafly.com oppure visitate il sito: www.psicologiafly.com

 

 

 

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