Calcio, lettera del Prof. Santarpia del Sigmund Freud Institute …

Alfonso Santarpia, psicologo e professore di psicologia dinamica al Sigmund Freud Institute Paris scrive alla Redazione di "Napoli Magazine": "Cara Redazione, scosso dalla tempesta di violenza e di angoscia che sta toccando il calcio italiano, ho scritto una riflessione sull'angoscia di morte del dopo Morosini e i fatti di Marassi, cercando di tracciare anche qualche soluzione all'emozionalità da stadio. Spero che possa interessare Napoli Magazine".

Quel lento « cadere e morire » di Piermario Morosini, sbattuto in faccia dalla sete mediatica, ha gettato tutto il calcio italiano davanti ad un'angoscia intensa di morte.
Sentimento tremendo, generatore di accuse che non hanno portato a nessun colpevole individuato, che non hanno portato a nessuna identicazione del male, generando un' angoscia libera.
Il tentativo di espellere e di elaborare quest'angoscia profonda, tortura coscienziale, di tifosi e di  calciatori ha assunto varie espressioni: «una risposta di rispetto e di memoria» con l'interruzione del campionato a cura della Federcalcio, in un primo momento. Successivamente, poi, i   calciatori di Serie A e Serie B, indossando una maglietta celebrativa con la scritta «25 Piermario Morosini», davano omaggio ad un uomo che, straziato da tante tragedie private, aveva preso il meglio del calcio: un'esperienza tribale che permette di trasmutare i dolori più profondi in emozioni forti sia nei tifosi, sia nei calciatori.
Emozioni di cui l'essere umano ha bisogno per esistere:  l'orgasmico goal all'avversario, la gioia di battere il rivale, il piacere di essere in un gruppo come squadra-famiglia,  la calda sicurezza di essere sostenuto dai tifosi-cultura, il piacere di essere profumatamente pagato per la propria azione corporea-professionale, il piacere anche di uno sfogo interno (sociale o personale).
Ma il tentativo di risolvere quell'angoscia di morte con l'identificazione di un totem, eroe che con la sua morte esorcizzasse come atto di magia, tutta la violenza del calcio italiano contemporaneo, non poteva realizzarsi. La distruttività è ritornata in azione. Il 24 aprile 2012, allo stadio Marassi, il Genoa perde 4-0 in un'importante sfida salvezza, e accade che la frangia più scalmanata dei tifosi genoani lancia fumogeni, blocca l'uscita dei giocatori dal campo verso gli spogliatoi e mette sotto sequestro una partita di serie A, chiedendo ai giocatori genoani di levarsi la maglietta perché non la meritano.  Azione e retorica di guerra, violenza agita dello spettatore che esce dalla simbolizzazione del calcio. Si capisce allora come  quel lento « cadere e morire » del Morosini, quell'angoscia libera, è stato il presagio di una terribile certezza : gli stadi italiani sono sempre di più metaforizzabili come « campi di guerra » o « arene » dove i nostri istinti più bassi e le nostre frustrazioni più attuali prendono le forme più mortifere. E non è più una questione di frange, ma dell'intera collettività che partecipa ad una partita. Ecco perché la soluzione inglese di identificare « i cattivi » non è l'unica strategia da adottare in Italia. L'Italia non è l'Inghilterra, il calcio italiano e la società italiana attuale s'incrociano in simbolizzazioni affettivo-sociali diverse da quelle inglesi.
Qui in Italia, tutti siamo complici, per diverse ragioni storico-culturali di questa antica fascinazione, di lasciare emergere e proiettare massivamente le collere, le frustrazioni e le attese più diverse nel contenitore assai ampio dello « stadio » : dal grido primitivo del « mors tua vita mea », alla crisi di una gioventù senza troppe speranze, alle espressioni razziste, ai riscatti culturali, ma la liste sarebbe più lunga. Quindi, era prevedibile che l'operazione repressivo-morale di separare il tifoso buono da quello cattivo attraverso la tessera del tifoso, non poteva apportare una risposta efficace.
La risposta possibile a quest'angoscia libera che aleggia nell'aria, nutrendosi di retoriche di violenze che si moltiplicano di giornata in giornata, non puó essere solo la necessaria azione repressiva per chi commette azioni illegali. Si tratta di cominciare a guardarci dentro, come tifoso juventino, come tifosi romano, etc. Ognuno con la propria specifica passione, ed ammettere che è liberatorio avere un luogo dove si possa gridare il proprio «magma emotivo». Un luogo dove si possano vivere emozioni forti che ci fanno sentire vivi e che ci permettono una forma di sfogo sociale. Determinato questo, senza falsi moralismi, si cominci ad incoraggiare lo sviluppo di retoriche da stadio che siano « un pass » tra  la rappresentazione dello stadio « come arena » et/o « campo di guerra » alla rappresentazione dello stadio come « teatro delle passioni ». Luogo caldo,  dove l'attività proiettiva delle emozioni rimanga all'interno di una simbolizzazione non mortifera né per l'avversario, né per la cultura che l'avversario rappresenta. Più concretamente, si potrebbe incoraggiare fortemente i tifosi ma soprattutto i calciatori ad una retorica del festeggiamento, a livello mediatico ma anche e soprattutto al livello educativo. Per esempio, appropriarsi di riti di festeggiamento non distruttivi,  (inventare o semplicemente riesumare delle antiche canzoni nostrane di vittoria), farsi consolare e ridurre la tensione della sconfitta da specifici inni cantati (vedere alcune squadre inglesi e spagnole), esibire alcuni canti-danze di rivalità (vedere alcune squadre di rugby australiane), creare anche dei momenti pirotecnici ma in zone sicure e a fine partita. Semplicemente, trasformare quell'angoscia del « cadere e morire » di un giovane atleta in un nuovo corpo di rappresentazione e coscienza, dove in piedi ci sia il nostro calcio italico « come  tremendo e appassionato teatro di emozioni ».

Dr Alfonso SANTARPIA
Ph.D, psicologo 
Sigmund Freud Institute Paris  

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