“Annientamento” di Jeff Vandermeer, tra fantascienza e psicologia

Annientamento di Jeff Vandermeer, tra fantascienza e psicologia

Ho scelto di leggere Annientamento di Jeff Vandermeer, tradotto da Cristiana Mennella, attratta tanto dalla copertina quanto da una trama decisamente accattivante. È un romanzo che oscilla tra la fantascienza e il romanzo psicologico, ma che è anche senza dubbio erede dei grandi romanzi distopici del Novecento, come Il mondo nuovo di Huxley e Il signore delle mosche di Golding.

Una psicologa, un’antropologa, una topografa e una biologa vengono inviate nell’Area X per svolgere una missione esplorativa e di raccolta di dati. Prima di partire hanno ricevuto un lungo addestramento, durante il quale hanno progressivamente imparato a dimenticarsi di avere un nome proprio. Per tutto il romanzo esse verranno identificate con il nome della loro professione. Per entrare nell’Area X devono superare un confine, ma una volta oltrepassato non ne hanno alcun ricordo, poiché l’attraversamento si è svolto sotto suggestione ipnotica. La psicologa, incaricata anche di guidare il gruppo di ricerca, le ha condizionate affinché non ricordassero nulla del confine. Una volta giunte al campo base, scoprono subito una specie di costruzione non presente sulle mappe, e decidono di indagare.

Sarà proprio questa costruzione, che tutte chiamano tunnel tranne la biologa, la quale istintivamente la vede come una torre, uno dei punti focali del racconto. La visione della biologa è molto importante, poiché tutto il romanzo si presenta come il suo resoconto della missione. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dall’involucro fantascientifico che avvolge tutta la storia. Esso è senza dubbio importante, ben descritto e avvincente. Tuttavia non è che la superficie, almeno secondo la mia interpretazione.

Numerosi passaggi riescono a bucare l’involucro esterno dell’intreccio, lasciando intravedere riflessioni molto ampie e controverse.

La mappa era stata la prima forma di indicazione fuorviante. In fondo cos’era una mappa, se non un modo per mettere in luce alcune cose e renderne invisibili altre?

Questo passaggio, insieme ad altri, come ad esempio uno in cui la narratrice chiama “narcisistico” lo sguardo umano, ci ricordano quanto siamo abituati a considerare il mondo come qualcosa di nostro per diritto. Diamo per scontato che la Terra ci appartenga, quando in realtà essa appartiene solo a se stessa (e questo concetto è sviluppato in modo straordinario all’interno del romanzo). E, in conseguenza di ciò, misuriamo e mappiamo ogni cosa, senza renderci conto che ciò che produciamo in questo modo non è altro che una mera rappresentazione della realtà, non la realtà stessa. La biologa mette in dubbio le mappe, arrivando a comprendere che esse non sono che un’immagine soggettiva del territorio che sta esplorando.

Partendo da questo presupposto, il romanzo diventa un’esplorazione della psiche umana e della sua incapacità intrinseca di separarsi dalla sua soggettività. Nello stesso tempo, esso riflette sulla storia e sullo scopo dell’essere umano su questo pianeta:

L’aria era così pulita, così fresca, mentre il resto del mondo era com’era sempre stato nell’epoca moderna: sporco, stanco, imperfetto, in esaurimento, in guerra con se stesso. Laggiù, il mio lavoro mi era sempre parso un futile tentativo di salvarci da ciò che siamo.

Insomma, si tratta di un libro che sa dare molto di più se si è in grado di leggere tra le righe, di superare le apparenze e se si comincia la lettura liberi da pregiudizi. Io non vedo l’ora di leggere il seguito, che uscirà a inizio giugno.

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