Sebastian Vettel? Ha letteralmente un cervello allenato per macinare record e per vestire a lungo la tuta del “serial winner”. Il biondino di Heppenheim, sempre fiero seppur sornione, anche dinanzi agli italici fischi dei tifosi avversari, è l’uomo dei record e lo testimoniano i suoi passati e attuali successi.
Un campione precoce (è stato il più giovane pilota di tutti i tempi a guadagnare punti nel Gp USA 2007, ad andare in testa nel Gp del Giappone 2007, a conquistare una pole position nel Gp d’Italia 2008, a salire sul podio sempre a Monza cinque anni or sono, a ottenere una vittoria nel medesimo Gran Premio e a conquistare il titolo mondiale nel Gp di Abu Dhabi 2010), che ha saputo trasformarsi in un vincitore seriale (il tedesco nella stagione corrente è alla nona vittoria in quindici gare, 34 successi in 90 Gran Premi disputati con la Red Bull e punta ad essere per la quarta volta consecutiva campione del mondo).
Ha saputo, il giovane Vettel, prendersi cura del proprio talento, affinando, gara dopo gara, le proprie capacità attraverso un allenamento costante che lo ha portato ad acquisire una mentalità vincente.
La costanza nei risultati di Sebastian è dunque frutto di una raggiunta armonia psico-fisica, che ha radici nella biologia del suo cervello e nella capacità di potenziarlo attraverso l’allenamento. Vettel appare pacato ed equilibrato in gara, è conosciuto per il suo self control, così come per il suo sangue freddo che gli permette folli accelerazioni all’uscita dalle curve e di contenere al meglio gli errori in pista.
Recenti ricerche scientifiche hanno evidenziato che il cervello di un professionista sportivo è “superiore” a quello di un dilettante. Un team di studiosi dell'Università di Chicago ha evidenziato che alcune aree attive dell'encefalo di un campione sono più estese e meno sottoposte a interferenze; il campione, infatti, non deve pensare all’azione del “qui ed ora” perché attraverso la dedizione e la pratica degli anni la stessa è divenuta oramai spontanea. Può, quindi, risparmiare preziose risorse cognitive e investirle magari in fasi della gara che maggiormente teme e sul continuo e attento monitoraggio delle performance dei suoi avversari.
Anche la vista di un campione risulta potenziata: alcuni ricercatori dell’Università della Florida hanno dimostrato che le pupille di un neofita si muovono ogni 150-600 millisecondi, mentre i campioni sportivi riescono a mantenere lo sguardo fisso sul loro rivale fino a 1.500 millisecondi consecutivi, un'abilità decisiva durante fasi di doppiaggio o di sorpasso consecutive.
Non soltanto: uno studio di Pittsburgh rivela che la “sete di vittoria” scorre principalmente sotto forma di testosterone, i cui livelli aumentano vertiginosamente soprattutto quando si corre “in casa” o per un team che si conosce bene e da tempo, per l'istinto naturale di difendere il proprio territorio.
Il cervello di un campione non è di per sé straordinario, da un punto di vista genetico, ma si potenzia nel tempo, forgiandosi proprio come gli altri muscoli utilizzati dall’atleta. Anche le modalità di pensiero, come le imprese di Sebastian Vettel spesso insegnano, possono seguire lo stesso iter di sviluppo e quindi permettere al campione di consolidare le percezioni riguardo alle proprie capacità e di raggiungere importanti risultati sportivi.
In che modo uno sportivo può fare questo? Adottando un atteggiamento ottimista e proattivo, dinamico e flessibile, volto al futuro e non rimuginante rispetto agli errori compiuti, centrato sul raggiungimento del risultato e non sullo sforzo impiegato per raggiungerlo; il tutto in modo da poter far fronte alle richieste esterne nella migliore condizione psicologica possibile. Si tratta di veicolare gli sforzi proprio dove servono e nel momento più opportuno della gara, senza sprechi di energie mentali.
La giusta dose d’ansia, infine, non deve mancare, anche se può sembrare paradossale, in quanto è in grado di migliorare la performance e la capacità di problem solving del pilota, permettendo un’attivazione mentale più elevata e focalizzata sul compito.
di Sara Rosa, psicologa dello sport
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1 Commenti
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Mi sfugge il senso di questo articolo, che per altro potrebbe applicarsi a qualunque professionista di successo (non solo nello sport).
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