Talenti e tutele, quattro rimedi (possibili)

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Corriere della Sera

Lavoro Il tavolo L' intervento Dai luoghi comuni sul posto fisso allo scenario che cambia: una marea di lavoratori sempre più insicuri e una élite sempre più nomade

Rispetto a cento anni fa gli italiani lavorano 10 miliardi di ore in meno ma producono 13 volte di più

In questi giorni il problema lavoro viene affrontato da un punto di vista economico e giuridico mentre non può essere trattato senza l' apporto della sociologia, della psicologia, delle scienze organizzative. Reputo perciò necessario ricordare alcuni aspetti della questione lavoro che in altre sedi - come la rivista NEXT e il movimento ad essa collegato - vengono sistematicamente approfonditi con approccio interdisciplinare. Quando mio padre parlava di lavoro pensava ai braccianti agricoli; quando io, da giovane, parlavo di lavoro, pensavo ai metalmeccanici. Ma oggi è possibile dire, indifferentemente, che un tornitore lavora, un bancario lavora, uno scienziato lavora? Usare una parola sola per esprimere realtà profondamente diverse induce a comprimerle in un' unica camicia di forza normativa. A Manchester, che nella metà dell' Ottocento era la città più industrializzata del mondo, il 94% dei lavoratori dipendenti svolgeva mansioni manuali e parcellizzate. Oggi gli operai sono ridotti a un terzo di tutta la forza lavoro. Un altro terzo - impiegati, casalinghe, segretari - svolge attività prevalentemente intellettuali, sottoposte a regole che vanno adattate di volta in volta alle situazioni contingenti. Un ultimo terzo - imprenditori, artisti, scienziati - svolge attività creative. È possibile trascurare la profonda differenza strutturale fra questi tre tipi di lavoro? I programmi che vengono annunziati dal governo partono dal presupposto che il Pil, bloccato dalla crisi finanziaria del 2008, presto ricomincerà a crescere anche grazie alla proroga dell' età pensionabile e all' abolizione dell' articolo 18. Ma il nostro Pil, che negli anni Sessanta crebbe di cinque punti e mezzo l' anno, ha rallentato costantemente, di decennio in decennio, la sua crescita fino allo 0,3 punti l' anno dell' ultimo decennio. È realistico invertire questo trend, come assicurano gli economisti al governo? Poiché le economie del pianeta sono ormai interconnesse come vasi comunicanti, è credibile che l' Italia, col suo Pil pro capite di 37.000 dollari, continui a crescere mentre la Cina resti a 3.740 dollari? Già solo in termini energetici, nei prossimi anni l' Europa dovrà ridurre di almeno 30 milioni di tonnellate il suo fabbisogno di prodotti petroliferi. Non a caso si va diffondendo una spinta anticonsumista. Si tratta di pulsioni soggettive che il governo dovrebbe tradurre in un nuovo modello di società civile. Ma basta l' economia per elaborare un simile modello? Keynes sosteneva che nessuna economia può superare impunemente un tasso di disoccupazione pari al 2%. Poi, man mano, questo limite è stato elevato sicché oggi viene considerato «fisiologico» un tasso del 6% e persino una disoccupazione che sfiora le due cifre. In realtà il lavoro cresce meno dei lavoratori soprattutto nei Paesi più avanzati, che sanno produrre sempre più beni e servizi con sempre meno lavoro umano (Jobless Growth). Rispetto a cento anni fa, oggi gli italiani sono la metà, lavorano 10 miliardi di ore in meno ma, grazie al progresso tecnologico e organizzativo, producono 13 volte di più. In Francia, nell' arco di due secoli, l' occupazione è aumentata di 1,75 volte ma la produzione è aumentata di 26 volte. L' elettronica, a differenza della meccanica, distrugge più lavoro di quanto ne crea. In pochi giorni tre autorevoli membri del governo hanno sparato a zero contro il lavoro fisso. Questa intenzionale crociata, intrapresa da persone che godono della massima stabilità occupazionale, parte dalla convinzione che, rendendo precari anche i garantiti, l' economia crescerà e ci sarà lavoro per tutti. In effetti, gli unici risultati sicuri consisteranno nell' ulteriore indebolimento dei sindacati, nella micro-conflittualità e nella divaricazione del mercato del lavoro, dove una marea di lavoratori sempre più insicuri convivranno con una élite di talenti sempre più nomadi, che le imprese dovranno corteggiare e contendersi. Gli economisti al governo considerano il posto fisso come una categoria minoritaria e residuale del mercato del lavoro mentre riguarda 15 milioni di dipendenti, pari all' 88% del totale. Il lavoro stabile e garantito rappresenta una conquista storica che torna parimenti utile ai datori di lavoro (cui permette di programmare la propria carriera e la propria vita) e al datore di lavoro (cui permette di fidelizzare, formare e motivare i collaboratori, moltiplicandone la produttività). Soprattutto il lavoro intellettuale, che ormai riguarda il 66% di tutta la forza lavoro, non può essere gestito con il controllo e la paura ma richiede operatori motivati. La precarietà, invece, rappresenta la tomba della motivazione e, dunque, della produttività. Chi ha investito tempo e denaro per conseguire un livello elevato di formazione, resiste all' idea di svolgere un lavoro meno qualificato e retribuito di quello cui si è preparato. In Italia sono circa due milioni (pari al 21% dei giovani tra i 15 e i 29 anni) questi Neet (Not in Education, Employment or Training) che hanno terminato gli studi e, dopo una frustrante ricerca, hanno smesso di cercare un lavoro, sapendo di non trovarlo. La ripresa, ammesso che ci sia, sarà tale da assicurare rapidamente un lavoro a tutta questa massa di «inerti per obbligo»? Insieme ai disoccupati e a quei pensionati che vorrebbero lavorare ancora, essi costituiscono una massa crescente di cittadini cui è consentito consumare ma non è consentito produrre. La maggioranza degli attuali trentenni - ricchi o poveri che siano - si ritrovano in una condizione professionale peggiore di quella in cui si trovavano i loro genitori quando avevano la stessa età. Cosa sarà dei loro figli (se potranno permettersene) quando, a loro volta, avranno trent' anni? Per arginare gli effetti del Jobless Growth si sente ripetere che occorre inventarsi nuovi lavori, ma anche la fantasia e l' intraprendenza hanno un limite e noi abbiamo già raschiato il fondo del barile. Tuttavia altre idee potrebbero venire. Ad esempio, si potrebbe ripristinare, con un contributo incentivante dello Stato, molti posti di portineria, ora sostituiti maldestramente dai citofoni. Migliorando il trattamento e gli orari imposti a badanti, camerieri, autisti, colf, baby sitter, si potrebbe invogliare i nostri giovani ad accettare anche mansioni oggi svolte dagli immigrati, che in Italia rappresentano il 9,4% delle forze di lavoro. Un altro rimedio - già suggerito da Keynes fin dagli anni Trenta, ma sempre rifiutato dalle aziende - potrebbe consistere nel far posto ai disoccupati riducendo l' orario lavorativo degli occupati che svolgono mansioni esecutive. Il quarto rimedio potrebbe consistere nel proibire lo straordinario ai workaholics. In Italia sono almeno due milioni i manager e i professionisti che ogni giorno fanno un paio di ore di overtime. In complesso si tratta di 880 milioni di ore annue che potrebbero essere convertite in 500.000 nuovi posti di lavoro. Hannah Arendt si chiedeva: «Cosa succede in una società fondata sul lavoro quando il lavoro viene a mancare?». Succede che occorre mettere mano a un patto inedito fra le generazioni, basato sulla ridistribuzione del lavoro, della ricchezza, del sapere, del potere, delle opportunità e delle tutele. Altro che articolo 18! Domenico De Masi Professore di Sociologia del Lavoro presso «La Sapienza» di Roma ****31%

De Masi Domenico

Pagina 13
(29 febbraio 2012) - Corriere della Sera

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