Mangiare non rappresenta soltanto l’appagamento di un preciso bisogno fisiologico. Tale attività difatti, presente sin dalla nascita sotto forma di istinto espresso, nei primi mesi, con la suzione, alla pari di ogni altro comportamento umano nasce, si evolve e si stabilizza attraverso dinamiche di apprendimento, di elaborazione, di tradizione, di storia e cultura personale e principalmente per mezzo dinamiche relazionali emozionali.
Mangiare significa prima di tutto provare una emozione, tentare di appagare un desiderio che tante volte, poco ha a che fare con il soddisfacimento dell’istinto riferito all’aver fame, per questo il comportamento alimentare attualmente è stato ampiamente esteso dal campo biologico al campo psicologico e spesso a quello sentimentale. A proposito, basti ricordare il detto ormai comune che suona più o meno così: "Ho fame di te". Mangiare diventa però un comportamento, qualche volta abitudinario, quando il nostro io, nella sua espressione psico-fisica passa dalla soddisfazione di un desiderio ad una scelta che prevede precise convinzioni di vita.
Il comportamento alimentare quindi, può considerarsi un test abbastanza indicativo ai fini di individuare, se pur globalmente, una lastra dell’anima, una tendenza della nostra struttura di personalità che, considerando tempi e pressioni sociali si muove quasi sempre nell’ambito di un equilibrio nevrotico. Il comportamento alimentare esiste prima di tutto dentro di noi, si integra con le dovute interferenze ambientali, tende ricorrentemente a subire il fascino della tradizione e cultura sia individuale che personale e può diventare abitudine se il soggetto che lo attivizza non ha maturato dentro di sé una capacità di scelta, una attitudine a percepirsi come realtà psico-corporea in grado di esprimere e soddisfare bisogni pur non stabilendo con essi un rapporto di dipendenza.
Un Io sano, in armonia con se stesso ed il mondo è un Io che fa del mangiare una scelta, una ricerca del piacere e della qualità; è un io che si regala ogni giorno alimentandosi, salute e benessere dentro e fuori.Il comportamento alimentare è un atto spontaneo con cui ci garantiamo la sopravvivenza, la conservazione della specie e la soddisfazione della fame con il raggiungimento altrettanto spontaneo di un piacevole senso di sazietà.
Non sempre però nella nostra vita fame e sazietà corrispondono ad equilibrati meccanismi biologici, basti pensare che quest’anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità attribuisce all’obesità il primato di malattia epocale e ad anoressia e bulimia lo scettro di calamità psico-sociali estese persino tra le popolazioni più povere.
Quando un bambino, un adolescente o un giovane mangia male, mangia tanto o mangia poco vuol dire che il naturale istinto di fame e sazietà sono stati inquinati da fattori psicologici negativi che determinano spesso sintomi degenerativi sino ad arrivare ad anoressia e bulimia. Le persone affette da queste sintomatologie hanno una seria difficoltà a percepirsi malate o bisognose di aiuto. Arrivano difatti dal medico o dallo psicoterapeuta quando la malattia della psiche ha fatto già molti danni e, a volte, quando il disturbo è totalmente strutturato da rendere difficile se non fallimentare l’intervento.
Mangiano perché non ne possono fare a meno, mangiano perché non sanno dire di no, mangiano perché è l’ora di mettersi a tavola secondo l’abitudine familiare, mangiano perché sono annoiati, mangiano per soffocare l’ansia, mangiano per il bisogno quotidiano di tenere sempre in bocca qualcosa da masticare.
Alcuni, infine, anche se pochi ormai in questo tipo di società contemporanea, mangiano per soddisfare un naturale istinto di fame, per attribuire al gusto un giusto ruolo previsto dall’equilibrio sensoriale e perchè consapevolmente o intuitivamente attribuiscono al comportamento alimentare il valore adeguato nella graduatoria naturale degli schemi comportamentali con cui tutti gli esseri umani vengono al mondo.
La fame però sommariamente considerata un istinto, per noi esseri umani non può stare ad indicare un’abitudine in quanto non lo è neppure per gli animali.
Difatti l’atto del mangiare è reso possibile e trova una motivazione primaria in ciò che l’individuo, impegnato nella realizzazione del comportamento alimentare, intende per fame. Dal punto di vista strettamente epistemologico la fame è considerata uno "stato di bisogno fisiologico che, suscitato dalla privazione del cibo, dà luogo al desiderio alimentare. Si manifesta nel comportamento di chi cerca nutrimento, comportamento che, nell’uomo, per esigenze sociali, può essere entro certi limiti disciplinato. La fame è in molti casi condizionata a orari e luoghi, anche all’infuori del bisogno organico. Il sentimento della fame rappresenta l’aspetto soggettivo di questo bisogno”. (Diz. di Psicologia)
A conferma dunque dell’evidenza che la specie umana e molte altre specie di animali si garantiscono la sopravvivenza attraverso i genitori ed il cibo, quasi per tutte le persone l’esperienza della fame non è limitata alla soddisfazione di un bisogno fisiologico. La fame indica anche una esperienza psicologica cioè la sensazione complessa, spiacevole e irresistibile da cui l’individuo è investito sia se privato del cibo sia se portato ad interpretare la percezione della fame e di altri bisogni fisici come il risultato di un processo di transizione reciproca nel campo dei rapporti interpersonali. Bisogna tener presente inoltre che se l’appetito riguarda un aspetto genetico dello schema comportamentale alimentare, l’esperienza della fame non è innata ma, bensì, fondata su elementi importanti dell’apprendimento.
Nei ragazzi obesi ad esempio c’è sempre stata una madre disposta ad offrire nutrimento in segno di affetto e per far tacere l’ansia provocata dalla responsabilità di aver messo al mondo un figlio. Si mangia troppo quando non ci si sente padroni dei propri comportamenti, quando si ha l’impressione di non possedere il proprio corpo, quando si ha difficoltà a percepire il proprio centro di gravità che, attraverso una percezione distorta del senso di fame, finisce per localizzarsi nello stomaco troppo pieno o troppo vuoto.
Eppure mangiare non è un’abitudine nemmeno per gli animali.
Nei ragazzi tendenti invece a non considerare l’alimentazione un diritto, un dovere ed un piacere c’è quasi sempre stata una madre o chi ne ha fatto le veci che ha attribuito all’alimentazione un significato troppo perfezionistico e paradossalmente limitativo.
L’adolescenza è l’età della turbolenza, dei desideri soggettivi, della voglia di autonomia, della critica a ciò che si sa del probabilismo realistico, del trionfo delle operazioni logico-formali, delle risposte a tanti inutili perché, della costruzione individuale e collettiva del proprio futuro vissuto con le caratteristiche proprie di questo periodo con senso di onnipotenza e di capacità ad affrontare tutto. Gli adolescenti però, come individui ormai non soltanto teoricamente adulti, mostrano bisogno di apprendere teorie appropriate, informazioni giuste e tipologie scientifiche in grado di soddisfare le loro profonde motivazioni.
Verso il cibo ed il nutrirsi secondo sani principi naturali possono mostrare curiosità, attenzione, sufficiente interesse a comprendere e modificare apprendimenti inidonei. Che lo facciano o no dipende da come li trattiamo e da come sappiamo, con rispetto entrare in contatto con loro.
L’esempio è Federica 20 anni o poco più, sempre affamata non sa come farsela passare la fame o meglio come controllare questo prurito interiore che la costringe dal mattino alla sera a sgranocchiare sempre qualcosa. Federica ricorda di essere sempre stata di appetito, di aver mangiato con gioia ed allegria, di aver apprezzato e goduto sempre le delizie della buona tavola e di ritrovarsi ora, da grande, con una strana voglia di mangiare, malgrado lo stomaco non lamenti assenza di cibo, che confonde con una fame continuata.
La fame, per quasi tutte le persone non rappresenta soltanto una esperienza limitata alla soddisfazione di un bisogno fisiologico. Essa è anche indicativa di una esperienza psicologica cioè della sensazione complessa, spiacevole e irresistibile da cui l’individuo è investito sia se privato del cibo sia se portato ad interpretare la percezione della fame e di altri bisogni fisici come il risultato di un processo di transizione reciproca nel campo dei rapporti interpersonali. Bisogna tener presente inoltre che, se l’appetito riguarda un aspetto genetico dello schema comportamentale alimentare, l’esperienza della fame non è innata bensì è fondata su elementi importanti dell’apprendimento. Si può nascere quindi con una tendenza ad avere più o meno appetito e ciò è altamente favorito dalla storia familiare personale e da come a livello di tradizione collettiva ci si è mossi ed organizzati intorno al comportamento alimentare.
E si può apprendere a pilotare tale istinto in un senso, nell’altro o nel modo più idoneo rispetto al proprio equilibrio personale. In tale prospettiva è interessante osservare come a livello di interpretazione psicologica empirica, in gergo comune molte persone abbiano adeguatamente chiamato fame nervosa quel determinato comportamento alimentare, ovviamente provocato da fattori psicogeni più o meno gravi che costringe un individuo a far continuamente uso di cibo per sentirsi apparentemente a posto, per soffocare l’ansia, per vivere un fatuo momento di relax, per riempire un vuoto provocato, il più delle volte da ben altre carenze. Ed anche in questo caso la psicologia popolare non si allontana molto dall’aver intuito le probabili cause di questo meccanismo comportamentale.
Le tipiche frasi "sono affamato di te, ti mangerei tutta o mi consumo per te, non mangio per amore, il pensiero dite mi toglie l’appetito, ecc." confermano che, al centro delle più varie problematiche alimentari si pongono i rapporti interpersonali, i sentimenti, gli schemi affettivi con cui siamo venuti alla vita ed attraverso i quali ci siamo garantiti, sin da piccoli, protezione e sopravvivenza. Quando questo schema affettivo nel suo disinnescarsi per interaggire sincronicamente col sistema affettivo comportamentale altrui, trova difficoltà nell’evolversi armonicamente attraverso l’espressione e la soddisfazione di sentimenti positivi, natura vuole che si tenda a scivolare in eccesso o in difetto sul comportamento alimentare. Le persone che hanno fame ne sono le vittime e i testimoni più autorevoli.
Le persone che sentono di avere molta fame e che non riescono a controllarla vengono generalmente definite obese. Il dizionario della lingua italiana Devoto-Oli definisce l’obesità come una sindrome caratterizzata da abnorme aumento del peso, per eccessiva formazione di adipe nel tessuto sottocutaneo e obeso una persona affetta da obesità, parola che deriva dal latino ob + esus participio passato del verbo edere = cioè l’obeso è un "individuo che ha mangiato".
L’etimologia di questi termini, derivati dalla lingua dei nostri antenati romani, rende giustizia solo in parte del significato che oggi sottintende il termine obesità, sia perché non considera il rapporto esistente tra eccesso ponderale e danneggiamento della salute sia perché attribuisce alla sola alimentazione la causa dell’eccesso ponderale, trascurando il ruolo delle cause genetiche, ambientali e psicologiche. Dal punto di vista strettamente fisiologico per classificare l’obesità si usano due semplici misure- l’Indice di Massa Corporea (BMI), che si calcola dividendo il peso corporeo in chilogrammi con l’altezza al quadrato in metri (kg/M2 ) e la circonferenza vita.
A proposito mi piace raccontare la brevissima vita di Nicol, una bimba di cinque anni simpaticissima che al momento risulta in sovrappeso di ben 10 chili secondo le misurazioni dieto-pediatriche. Nicol nasce con parto naturale, pesa alla nascita circa 4 chili e mostra subito piacevolezza dell’essere venuta al mondo e gusto, piacere, voglia di attaccarsi e succhiare il seno della propria madre. Il tutto rende orgogliosi i genitori inizialmente incuranti dell’eccessivo aumento di peso anzi sempre disposti a placare le piccole irrequietezze neonatali della bambina offrendo continuamente prima seno con latte poi biberon e cibo secondo le prescrizioni evolutive. La madre infatti racconta che quando Nicol piangeva e poi, più grandina faceva qualche capriccio bastava darle qualcosa da mangiare o succhiare perché lei ritornasse velocemente ad essere buona. Ecco l’inizio della costruzione patogena dei fattori psicologici.
La difficoltà maggiore difatti per chi fa uso smisurato di cibo e può iniziare sin da piccolo se educato in questo modo, è riconoscere le emozioni perché soffocate dall’atto del mangiare. Nicol ad esempio ha imparato quasi sin dalla nascita a sedare fame, sete, sazietà, piacere, dispiacere, freddo, bisogno di vicinanza del genitore ed altro attraverso una anestetica soddisfazione alimentare. E la madre, altrettanto confusa sul piano emotivo, non si è mostrata in grado di dare nessuna altra lettura, se non quella della richiesta di cibo, agli atteggiamenti della bambina.
Così pare che accada anche a Monica, 53 anni, bella donna, in carne quanto basta, appassionata naturalmente della buona tavola e di una regolare perfezione fisica. Da un po’ di tempo in qua ritrova a mangiare più del solito, a credere di avere più fame del solito ed a questa fame si lascia andare trasformando il suo fisico con un aspetto più che rotondetto. Perché? Perché Nicola, 65 anni da sempre atletico come regola di vita, da sempre curioso, disponibile, equilibrato ed altro la sere davanti al televisore, dopo un pasto abbondante non consuma un solo cioccolatino tanto per, ma 4-5 maledetti tronchetti di cioccolata e si costringe al sonno con un odio verso il suo stomaco ingordo e la sua pancia oramai ricoperta di adipe?
La risposta a questi perché dal punto di vista psicologico mostra similitudine e coerenza,malgrado la differenza di fasce di età, dell’insorgenza del disturbo.
Tutti sia Nicol a 5 anni che Nicola a 65 che Federica a 20 che Monica a 50 e più hanno a che fare con un momento particolare stressante della vita che vede la loro personalità in conflitto con le pressioni esterne e comunque incapace di sopportare con equilibrio un conflitto. Lo stato emotivo non indirizzato al piacere, alla stabilità, è troppo turbolento per loro, li disorienta fino a cercare nel cibo sedazione, calore, conforto. A sostegno e conferma di quanto già raccontava Cappuccetto rosso nella sua favola dopo aver risolto la tragedia del lupo e della nonna: “Le emozioni si sa, mettono fame”, gli obesi hanno interrotto una crescita psicologica interiore abbandonandosi ad una continua anestesia alimentare. Dobbiamo aiutarli a sviluppare un maturo, armonioso senso del proprio sé.