Rubrica Psicologia-società. Il dolore della perdita e il …

Rubrica Psicologia-società. Il dolore della perdita e il meccanismo dell’identificazione

12 novembre 2011
Psicologia e Società
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Rubrica di Psicologia e Società
a cura del dott. Marco Sacchi
Psicologo, psicoterapeuta specializzato in psicologia clinica

Il dolore della perdita e il meccanismo dell’identificazione

Nei giorni scorsi mi sono ritrovato a riflettere sugli ultimi fatti di cronaca avvenuti. Dalla morte del pilota Simoncelli a quella delle persone travolte dalle inondazioni provocate dalla pioggia. Tra le vittime purtroppo si contano anche dei bambini molto piccoli.
Gli avvenimenti che ho citato fanno parte di una realtà resa macroscopica dagli organi di informazione. Nel primo caso si tratta di una personaggio molto famoso del mondo dello sport, mentre nel secondo di una catastrofe naturale che ha provocato delle vittime. Certo nel secondo caso sarebbe importante analizzare dove arrivi la responsabilità della natura e dove invece quella dell’incuria e degli errori di gestione del territorio da parte dell’uomo; ma non è questa la sede opportuna per avanzare ipotesi in tal senso anche perché non è competenza di chi scrive. Come vi dicevo, da un punto di vista psicologico questi eventi portano a galla il pesante fardello del lutto. Cioè ci mettono di fronte al fatto che nella vita di noi tutti esiste questo aspetto e che dobbiamo farci i conti in termini relazionali e psichici.
Gli episodi sopra citati sono accomunati anche dalla perdita improvvisa, la morte che sopraggiunge con una velocità che non ci lascia tempo per renderci conto di quanto stava per accadere, e il dolore, tragico, immenso, che sembrerebbe andare contro il corso naturale dell’esistenza umana: la perdita di un figlio da parte di un genitore.
Di fronte a quest’ultima possibilità è davvero molto difficile non venire travolti da emozioni ingovernabili che per ognuno di noi possono assumere connotati e dimensioni diverse, ma sicuramente è quasi impossibile rimanere indifferenti. Anche l’indifferenza sarebbe solamente l’estremo tentativo di difesa da un evento che potrebbe avere delle conseguenze destabilizzanti per il nostro equilibrio mentale.
Pensare di poter descrivere o spiegare cosa accade in queste situazioni è davvero complesso. Anche per chi, come noi ,si occupa del funzionamento dell’attività psichica e dovrebbe intervenire in modo terapeuticamente efficace in questi casi, la prudenza e il rispetto per i sentimenti di chi vive eventi di tale portata traumatica sono sicuramente gli atteggiamenti più opportuni. Il rischio, infatti, è quello di arrogarsi un potere che in realtà non esiste e di trattare una dimensione così sconfinata della natura umana in modo troppo sterile e semplicistico.
Tuttavia è molto importante anche assumersi il rischio di accedere a terreni così delicati avendo ben chiaro l’obiettivo. Che non deve essere quello di racchiudere qualche cosa di così complesso all’interno di visioni precostituite e in grado di catalogare e di archiviare il tutto; ma quello di effettuare un timido tentativo di analisi per capire cosa accade in questi casi e cosa eventualmente possiamo fare per cercare di recuperare la possibilità di stare meglio o quanto meno di iniziare un percorso di recupero del nostro equilibrio emozionale. Dico questo perché in tali situazioni si viene pervasi da potenti sentimenti di tristezza e di dolore, che possono essere definiti depressivi nel momento in cui rischiano di protrarsi per un tempo lungo e indefinito.
Per provare a capire cosa accade nel contesto di un lutto, possiamo provare a pensare a quello che accade nella vita di tutti i giorni. Nel senso che la dimensione della perdita varia, potremmo dire forse in modo gerarchico, da eventi pesantissimi come quelli di cronaca citati sopra ad eventi che per ognuno di noi assumono una frequenza quasi quotidiana ma non ne siamo consapevoli o non diamo loro peso proprio perché molto meno traumatici.
Infatti possiamo rifarci a numerosi esempi di situazioni quotidiane in cui siamo costretti a gestire momenti di perdita e quindi di separazione. Basti pensare al genitore che accompagna il figlio a scuola e deve lasciarlo lì, quando dobbiamo partire per un viaggio più o meno lungo, quando finiamo un lavoro o quando salutiamo qualcuno che ci è molto caro che parte per andare a vivere in un altro luogo. Insomma, la nostra vita è satura di momenti in cui ci troviamo a dover gestire la separazione da oggetti, situazioni, e soprattutto persone.
Cosa accade nel nostro mondo interno quando ci troviamo in una situazione del genere?
Per tentare di capire meglio può essere utile partire da quello che sappiamo, o crediamo di sapere, sulla nostra identità.
Noi siamo abituati a pensare al nostro senso di identità come a qualcosa di unico, di monolitico. Come se quel qualcuno dentro di noi fosse una persona singola. Tant’è che è entrato nel linguaggio comune il concetto di persona unica e irripetibile. E in effetti da un punto di vista biologico, psicologico e sociale è proprio così. Non siamo esseri riproducibili uguali uno all’altro, come se ognuno di noi potesse clonarsi e riprodurre una copia esattamente uguale a sé. Questo non è possibile. La riproduzione sessuata permetta la continua evoluzione di persone con caratteristiche diverse e irripetibili. Ogni volta che nasce un bambino accade questo fenomeno incredibile dell’esistenza umana.
Quindi noi siamo convinti di essere persone uniche, di avere un Io unico, anzi di essere quell’unico Io che si rivela anche nella relazione con gli altri e che ci permette di raccontarci e di raccontare agli altri le nostre caratteristiche di personalità; quando diciamo io sono fatto così, a me piace questo o quell’altro e ci riferiamo a noi stessi sempre in modo singolare. Avete mai sentito qualcuno rispondere a una domanda dicendo: “Eh sì, a noi piace andare al cinema”. Ma a noi chi? Direbbe il disorientato interlocutore, non sto parlando con una persona sola?
Però dal punto di vista di ciò che appartiene al mondo dei fenomeni psichici avviene qualche cosa di cui non ci rendiamo conto, o almeno se non attraverso particolari esperienze che tutta via permangono nella rarità del nostro percorso di vita.
Mi riferisco al concetto per cui la nostra identità sarebbe abitata da diversi personaggi interni. La nostra identità è molto più plurale di quello che noi vorremmo credere. Certo la nostra idea non corrisponde ad una dimensione plurale dell’identità, ma questo perché destabilizzerebbe troppo il nostro senso si sé, la nostra sicurezza, saremmo pervasi dall’angoscia.
Ma se ci pensate bene, il nostro vissuto, dalla nostra esperienza, emerge questa dimensione dell’animo umano. Pensate solamente a quante volte vi siete trovati a dialogare interiormente fra di voi in cui si disarticola un vero e proprio colloquio fra due o magari più personaggi. Pensate solamente a quante volte una parte di noi sostiene che sarebbe il caso di effettuare una certa azione e un’altra nostra voce interna esprime una parere contrario o di altro tipo.
Questi fenomeni di dialogo interiore sono una specie di prova che il nostro mondo interno è come un teatro, dove diversi personaggi sono potenzialmente in grado di inscenare le più svariate e diverse situazioni di vita.
Ma da dove arrivano tutti questi personaggi?
Arriverebbero dalle numerose identificazioni che, fin dalla nascita, noi costruiamo grazie alle relazioni con gli altri. In primo luogo i nostri genitori ovviamente. Ma in seconda battuta con tutta una serie di figure per noi significative che vanno dai ranghi delle parentele a quelli che troviamo in altri contesti comuni: le amicizie, le svariate figure educative del mondo scolastico e via dicendo.
L’identificazione con gli altri è uno dei principali strumenti utilizzati dalla nostra psiche per costruirsi un’identità
Da qui si capisce anche quello che potrebbe accadere nel caso della perdita nel modo reale di una persona per noi significativa. Siccome questi altri significativi vengono da noi interiorizzati, e anche se dentro di noi la mente li può modificare, trasformare, questi rimangono sempre le fonti più importanti sulle quali abbiamo costruito il nostro senso di sé e del mondo.
Quante volte sentiamo dire, durante una situazione di lutto,la frase: “è come se fosse morta una parte di me!”. Il problema è che se fosse davvero così, se morisse quella parte dell’altro che noi abbiamo interiorizzato, non soffriremmo così tanto. Il guaio è che il dolore nasce proprio dal mantenimento interiore di una rappresentazione, oltre che mnemonica, anche affettiva ed emotiva dell’altro che non c’è più.
L’elaborazione della perdita, del lutto, crea un dolore enorme, lancinante, proprio per questo motivo.
Prima ho usato il termine “guaio”. Forse non è corretto utilizzare questa parola in quanto è proprio la nostra capacità di identificarci con gli altri e di fondare la nostra identità sugli altri che ci permette di vivere un senso di continuità e che attribuisce all’esperienza umana una dimensione spirituale difficilmente ascrivibile alle seppur complicate teorie della mente che fino ad oggi conosciamo.

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